Tra magistratura e politica nessuno è innocente

di Massimo Cacciari, L’Espresso, 2 maggio 2021

Il Parlamento spaventato non ha pensato una riforma coerente, ma i giudici, nel vuoto, si sono dati un compito eccessivo. E rimediare adesso sarà comunque traumatico. È estremamente difficile svolgere un discorso obbiettivo sulla crisi dell’amministrazione della giustizia oggi in Italia. Il campo è stato invaso ormai da un trentennio da contenuti e fini della lotta politica. Discernere quanto di questa crisi sia imputabile alle modalità assunte da questa lotta, quanto da ragioni etiche e culturali interne alla magistratura, analizzare gli intrecci inevitabili tra i due piani, significherebbe ricostruire la genesi del mutamento di stato che il nostro sistema istituzionale sta attraversando senza che nessuno ne abbia chiara coscienza e cerchi di governarlo.

Certo soltanto è che pensare che un tale mutamento possa avvenire senza produrre traumi all’interno di quelle funzioni essenziali della macchina dello Stato rappresentate dalla Magistratura, equivale a cullarsi in ipocrite illusioni. E non mi riferisco agli inevitabili effetti di “contagio” che il fenomeno della cosiddetta “corruzione” produce, ma all’esplodere di contraddizioni e lacerazioni ben più profonde, proprio di ordine culturale, che dovrebbero essere dichiarate e affrontate con chiarezza.

Si dice che la Magistratura si è trovata quasi costretta, dal tracollo della prima Repubblica, e poi via via per il perdurare di una fisiologica impotenza del ceto politico nel decidere sui grandi problemi di riforma del Paese, a svolgere una “funzione di supplenza”. Supplire vuol dire riempire un vuoto. Ma non ogni vuoto può essere riempito da qualsiasi sostanza. Perseguire crimini accaduti nello spazio politico potrà avere conseguenza politiche, non sarà mai fare politica, anche quando magari ne ha l’intenzione.

È avvenuto qui un cortocircuito nell’opinione pubblica, che ha condizionato in qualche modo la stessa azione della Magistratura, o di alcuni suoi settori? Può darsi, ma è questione ininfluente. Il problema di fondo, in una prospettiva storica, non ridotta alla cronaca dei quotidiani contrasti tra politica e magistratura, riguarda l’azione della prima sul tema della giustizia, da un lato, e la cultura predominante che la seconda ha espresso nel suo operare concreto, dall’altro. Sono i due piani, per vizi intrinseci a ciascuno, a essere finiti in questo trentennio in rotta di collisione.

Il legislatore ha manifestato la propria crescente impotenza a decidere attraverso un’inflazione di ordinamenti e norme occasionali, in contraddizione o competizione tra loro. Ciò è avvenuto pressoché su tutte le materie, costringendo a ricorrere a continui adattamenti, a riscritture ininterrotte, e senza mai giungere a leggi chiare su alcune delle più delicate e di frontiera. Basti pensare a fine vita, eutanasia, diritto di cittadinanza. Appartiene a questi problemi in attesa di assumere una regolazione giuridica razionale anche quello della funzione del partito politico, del suo finanziamento, dei costi della rappresentanza democratica.

Eppure questo problema ha rappresentato la Sarajevo della prima Repubblica, e logica avrebbe voluto venisse affrontato per primo: non mai! La sfida di Craxi sarà stata dettata da superbia finché si vuole, ma era del tutto ragionevole: onorevoli colleghi, siete in grado, voi e i vostri partiti e correnti di funzionare secondo l’attuale legge? Lo escludiamo tutti,vero? – e allora, domanda successiva, vogliamo insieme immaginare una riforma complessiva e radicale del sistema per la quale si possa funzionare secondo una nuova?

Rispondere di sì – cosa che nessuno fece – avrebbe significato mettere anzitutto mano alla stessa Costituzione per definire in quella sede il profilo del partito politico e del sindacato alla luce del “mondo nuovo” dopo l’89. Gli interventi legislativi si limitarono da allora, invece, agli aspetti economici, mostrando pari incultura e demagogica improvvisazione di quella esibita per i “tagli” di vitalizi e deputati.

In parallelo a una azione legislativa sempre più confusa e di “emergenza” è inevitabile che il lavoro connesso alla sua “interpretazione” debordi dal suo compito di “esplicazione” della norma, per tendere a diventare anche espressione anche di quei “valori” che il giudice ritenga sovra-determinati rispetto ad essa.

Più la legge fatica a definire fattispecie chiare sotto cui sussumere i casi particolari, più la norma va de-formandosi, più il magistrato si sentirà quasi chiamato a “protestarla”, a esigerne di nuove, e dunque a intervenire di fatto nel campo politico, secondo fini politici. L’esperienza giuridica può essere considerata astratta dal mondo della vita e dei suoi conflitti soltanto nei testi di accademia, tuttavia è essenziale, per il funzionamento dell’intero sistema, che dal politeismo dei valori proprio della democrazia (almeno di quella in cui siamo cresciuti) il magistrato si tenga ben distinto nella sua funzione, per quanto arduo il compito appaia.

A lui spetta, sì, l’ultima parola, ma solo in sede processuale, e questa parola non detiene altra “verità” che la propria nuda realtà: a un certo punto, cioè, occorre metter fine al processo. Una verità puramente fattuale, che va costruita con rigore logico, dedotta sulla base di norme chiaramente esplicabili. Un’azione che nulla ha a che fare con ammonimenti morali, prediche, imperativi categorici. Insomma, il processo – che già in sé costituisce parte della pena (e mai questo è vero quanto oggi) – non è scuola dell’honeste vivere.

L’uguaglianza di fronte alla legge, l’isonomia che è fondamento dello Stato, esige norme dotate di forma, riconducibili a principi chiari, e per questo tali da permettere un’esplicazione il più possibile conforme ed uniforme. La magistratura di fronte ad esse dovrà contenersi nel proprio limite imperativo. Professione o vocazione di immensa difficoltà, la sua, poiché comporta una continua rinuncia all’espressione dei propri “valori”, se si esclude quello, altrettanto generale che universale, affermante che nessuna comunità potrebbe reggersi se a ognuno non venisse dato “ciò che gli spetta” per i suoi atti, fino a un giudizio ultimo, inappellabile.

Tremenda responsabilità, di cui la cultura del giudice dovrebbe manifestarsi ben cosciente. Senza azione legislativa strategicamente orientata e senza la coscienza di questa responsabilità da parte della magistratura, continueremo ad avere leggi sconclusionate applicate variamente a seconda della diversità di luoghi, tempi e magistrati; alle leggi ad hoc continueranno a seguire processi ad personam di analoga natura in un circolo perfettamente vizioso, in cui finiranno col corrompersi ancora più alla radice il nostro sistema istituzionale e la nostra azione politica.

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