Nove morti senza verità

di Pierfrancesco Albanese, L’Espresso, 3 maggio 2021

La strage del carcere Sant’Anna di Modena. A un anno dalla rivolta, un recluso forse picchiato a morte, altri otto ufficialmente uccisi dal metadone. ma familiari e legali non ci stanno.

Nove morti senza un perché. Il silenzio che si allunga sui corpi, nei luoghi dove un tempo è stato tumulto. Ingoia i dubbi. E rigurgita certezze. Quelle della Procura, che per uno dei tre rami dell’indagine sulle rivolte del carcere di Modena chiede l’archiviazione. Per otto dei nove morti – questa la tesi – la causa del decesso è overdose da metadone o altri psicofarmaci. Senza responsabilità terze, senza elementi che corroborino l’ipotesi di ulteriori concause.

Ma a un anno di distanza non è tutto chiaro sulla “Strage del Sant’Anna”. Quella definita dal garante dei detenuti, Mauro Palma, come l’evento più drammatico degli ultimi decenni del carcere. E che è costata la vita a nove dei tredici detenuti morti nelle sommosse dei penitenziari italiani. Cinque al Sant’Anna di Modena: Erial Ahamadi, Hafedh Chouchane, e Slim Agrebi a qualche ora dalle rivolte, Lofti Ben Mesmia e Ali Bakilia nei due giorni successivi; altri quattro nelle carceri di destinazione dopo il trasferimento: Ghazi Adidi a Verona, Artur Iuzu a Parma, Abdellha Rouan ad Alessandria e Salvatore Piscitelli ad Ascoli.

Per questo – per illuminare le zone grigie della vicenda – si oppongono all’archiviazione i legali dei familiari, dell’ufficio nazionale del garante dei detenuti e dell’associazione Antigone. Sono tre i filoni d’indagine aperti sui fatti di Modena: uno sui reati commessi dai reclusi durante la sommossa, un altro sui presunti pestaggi delle forze dell’ordine culminati secondo l’esposto di cinque di loro nella morte di Salvatore Piscitelli, e infine quello sul decesso di otto dei nove detenuti, Piscitelli escluso, per cui l’ipotesi di reato è omicidio colposo.

È su questo che ricade la richiesta d’archiviazione. Perché, per il procuratore Giuseppe Di Giorgio, “non sono emerse responsabilità di singoli, non rispetto alle morti”. “La Procura”, dice a L’Espresso, “ha svolto una ricostruzione completa sui fatti, ed è in corso il fisiologico contraddittorio davanti al giudice. Attendiamo le sue decisioni, rinviando all’esito ogni ulteriore commento”.

In buona sostanza, per la Procura, i reclusi avrebbero saccheggiato l’infermeria, assunto il metadone e ingrossato le fila dei rivoltosi. I medici, i sanitari e il personale di polizia penitenziaria avrebbero poi fatto il possibile per salvarli. Non è così, però, per i legali dei familiari. Molti sarebbero i nodi ancora da sciogliere. Tra tutti, quanto accaduto negli attimi successivi alla rivolta, quando viene allestito un presidio medico per visitare i detenuti in condizioni peggiori.

E quando, soprattutto, sarà disposto il trasferimento di 417 dei 546 reclusi per l’inagibilità di gran parte della struttura. Senza che vi siano riscontri documentali sulle visite effettuate nelle prime ore, né sui nulla osta sanitari imposti dalla legge per i trasferimenti. “In questa fase bisognava vagliare le condizioni dei detenuti e per i più gravi bisognava disporre un ricovero in loco e d’urgenza”, dice a L’Espresso l’avvocata Simona Filippi di Antigone, tra gli autori dell’opposizione. “Non bisognava trasferirli, perché c’era la probabilità che si sentissero male”.

La morte di nove persone, per la legale, sarebbe sintomatica di una cattiva gestione clinica dell’emergenza. “Anche perché”, continua, “il metadone non provoca effetti immediati. Intorno alle 13-14 dell’8 marzo 2020 si è capito che c’era stata questa dispersione di metadone e psicofarmaci. Tant’è che nel giro di qualche ora i detenuti hanno portato il primo deceduto davanti ai cancelli. I sanitari e la polizia penitenziaria avrebbero dovuto disporre subito i controlli necessari su chi aveva assunto farmaci. Non è stato fatto e alcuni sono stati trasferiti, poi sono morti”.

Vista la mancanza di carteggio, abbondano gli interrogativi: “Che linea di comando c’era per disporre i trasferimenti? Come venivano visitati i pazienti? E dove si è attestata la loro condizione?”. In definitiva: potevano essere salvati? Se lo chiede anche Luca Sebastiani, promotore dell’opposizione e legale di Hafedh Choucane, tra i deceduti di Modena. Per lui, tra i mille rivoli della rivolta, i dubbi si annidano sul tema della possibile responsabilità omissiva e sui ritardi nei soccorsi. “I detenuti”, spiega, “sono affidati alla custodia dello Stato, che si assume l’onere di privarli della libertà personale e deve perciò garantirne la tutela durante la detenzione. La polizia penitenziaria quel giorno ha affrontato una situazione delicata. Ma quando parliamo di sovraffollamento non possiamo meravigliarci che una situazione che poteva essere gestita sia esplosa”.

Tra i punti fermi, al momento, solo le cause della rivolta: la paura del Covid-19, l’impossibilità di vedere i parenti e il sovraffollamento. All’8 marzo 2020, erano 546 i detenuti su un bacino di 360 posti disponibili. “Un fatto con cui bisognerà prima o poi fare i conti”, sostiene Roberto d’Errico, vicepresidente dell’Unione camere penali italiane.

“Per i fatti di Modena è essenziale che continuino le indagini e si accertino le responsabilità: è impensabile che i detenuti muoiano per aver abusato di psicofarmaci nel carcere”. Le ricostruzioni della Procura non convincono neppure i membri del Comitato Giustizia e verità per i fatti di Modena, autori di un dossier che evidenzia le perplessità residue. Specie quelle imperniate sull’uso della forza da parte degli agenti.

Legittima, in circostanze eccezionali, secondo l’ordinamento penitenziario; illegittima secondo l’esposto presentato da cinque detenuti in seguito alla morte di Salvatore Piscitelli, il cui fascicolo è in capo ad Ascoli. La denuncia racconta di spari ad altezza d’uomo, cariche degli agenti su persone in stato d’alterazione psicofisica e manganellate al volto e al corpo. Violenze che i cinque mettono in relazione proprio con “i detenuti morti successivamente a causa delle lesioni e dei traumi subiti, ma le cui morti sono state attribuite dai mezzi d’informazione all’abuso di metadone”.

I pestaggi sarebbero proseguiti anche nei giorni successivi e nel penitenziario di Ascoli, dove sarebbe poi deceduto lo stesso Piscitelli. Tutti fatti, però, contenuti in un fascicolo separato rispetto al decesso degli otto per cui la Procura ha chiesto l’archiviazione. Un nonsense giuridico, secondo gli avvocati Luca Sebastiani ed Ettore Grenci.

“In una situazione in cui muoiono nove persone e in cui ci sono degli esposti circa maltrattamenti e pestaggi le due cose dovrebbero essere trattate insieme”, afferma lo stesso Grenci, legale di uno degli autori dell’esposto. “Se e quando si scrive che un abuso di farmaci provoca un arresto respiratorio, l’arresto può essere provocato dai farmaci ma si provoca anche salendo con il corpo addosso a una persona. Credo che sia interesse di tutti accertarlo”.

Sulle violenze si concentrano anche i membri del Comitato. “Su Piscitelli”, spiega la portavoce Alice Miglioli, “è uscito l’esposto che ha evidenziato fatti che non si potevano più ignorare. Per gli altri detenuti la versione è morte per overdose, che a noi è stata sempre stretta. Non diciamo che non sia così, ma che manchino dei punti importanti”.

Le ombre, per loro, si allungano sui soccorsi, sui trasferimenti e sulle presunte violenze degli agenti. Alcune formalizzate nell’esposto, altre riferite solo ai familiari. “Molti detenuti ci hanno raccontato di essere stati portati dagli agenti nel campo di calcio del carcere a sommossa terminata, e lì son state botte da orbi”, racconta Miglioli. Eventi che, se accertati, potrebbero aiutare ad interpretare la grammatica delle rivolte, secondo Simona Filippi di Antigone. “Ricostruire con più attenzione il discorso delle violenze”, dice la legale, “aiuta a capire perché dopo se la siano presa così tanto con i detenuti: perché già prima c’era un clima di esasperazione e di violenza”. Clima che non sarebbe mutato successivamente. “Quando gli autori degli esposti sono stati trasferiti, sono stati messi in quarantena, ma per 60-70 giorni. Un regime d’isolamento”, racconta ancora Mignoli, evidenziando ulteriori ritorsioni che i firmatari delle denunce avrebbero subito.

“I pacchi da casa non arrivavano, non avevano coperte e quando lo abbiamo segnalato sono arrivate coperte bagnate. Le repressioni a posteriori, così come i fatti del campetto, non possono essere giustificate dallo Stato italiano. Per questo occorre fare chiarezza”. Anche Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaiha, vicina ai detenuti autori dell’esposto, rimesta nel calderone dei dubbi. “La morte di nove persone dopo l’assalto all’infermeria, alcune delle quali senza un passato da tossicodipendenti, è uno schiaffo in faccia a chi segue queste vicende. Le testimonianze anche dalle altre carceri evidenziano dispositivi simili a Modena: vere e proprie spedizioni punitive a rivolte esaurite. Penso che ci sia stato una sorta di protocollo, ordini dall’alto perché le sommosse dovevano finire”.

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