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Perché un Osservatorio su Pena e Opinione pubblica?

Di Anna Simone

Nel 2007 Pratt diede alle stampe Penal Populism, un volume in cui per la prima volta si indicavano alcune caratteristiche, annoverabili anche come variabili interpretative, attraverso cui alcuni fatti sociali relativi alla devianza e al crimine, diventavano fondativi nella costruzione di una opinione pubblica sempre più orientata, anche grazie alla rivoluzione digitale, a generare gogne mediatiche, stigma sociali e forme di giustizialismo sommario, andando in deroga ai principi fondativi dello Stato di diritto, nonché delle garanzie previste dallo stesso diritto penale e penitenziario, tra cui la funzione rieducativa della pena e il reinserimento sociale dei detenuti. Ma il populismo penale, su cui torneremo più avanti è, a ben guardare, solo l’esito di un processo degenerativo di alcuni grandi mutamenti di scala che, mal governati, hanno spesso prodotto “effetti perversi” e rovesci di segno negativo nel corso degli ultimi decenni.

Le società del rischio, infatti, che hanno segnato il dibattito sociologico e socio-giuridico intorno alla fine degli anni Novanta hanno presto mostrato quanto, di fatto, le forme di gestione del rischio stesso si siano andate attestando attraverso strumenti, procedure e dispositivi sempre più illiberali o comunque sempre più prossimi a generare una cultura più legata all’ordine pubblico, anzichè indirizzata verso una cultura virtuosa in grado di integrare gli attori sociali al fine di generare un equilibrio maggiore tra ordine e disordine sociale, al fine di diminuire le gradazioni di anomia presenti in qualsivoglia tipologia di società. Una sorta di dinamica di tipo “reattivo” che ovviamente attraversa anche parte della cultura giuridica e politica contemporanea. Solo per fare qualche esempio si va dalla nascita e dallo sviluppo delle teorie sulla Tolleranza Zero applicate da Rudolf Giuliani e ben studiate dal sociologo Wacquant, ai processi di “amministrativizzazione del penale” rintracciabili nell’uso della detenzione amministrativa per condotte che non costituiscono fattispecie di reato, sino all’uso delle ordinanze amministrative per regolamentare condotte ritenute a priori pericolose, come la movida giovanile, la mendicità, la prostituzione di strada.

Luhmann, nel suo famoso testo “Sociologia del rischio”, pubblicato in Germania nel ’91 e in Italia nel ’96, aveva individuato nei processi di “selettività”, di “comunicazione”, di “decisione” e di “prevenzione” i quattro nodi principali attraverso cui gestire i rischi nelle società di quegli anni (Luhmann, 1996). Tuttavia la “gestione dei rischi”, nella pratica, come già accennato sopra, ha presto mostrato un rovescio autoritario o prossimo a riconfigurare nuove forme di controllo sociale e di costruzione del nemico pubblico o del capro espiatorio, per usare un termine caro a Girard, spesso al solo fine di garantirsi un maggiore consenso elettorale. Un esito che lo stesso Luhmann non poteva prevedere fino in fondo. Soprattutto in Italia il processo di “selettività” dei rischi ha avuto come suo rovescio principale la presa in carico, da parte del potere legislativo e degli organi decisionali, solo di “alcuni” tra gli stessi rischi, prevalentemente quelli legati ai trend della criminalità e della “devianza”, tralasciando tutti gli altri, come -ad esempio- i rischi ambientali; il processo di “comunicazione” dei rischi ha avuto come suo rovescio principale la costruzione degli “allarmi sociali” legati a fenomeni un tempo considerati come “normali” e “fisiologici” all’interno di qualsiasi mutamento sociale (fra tutti le migrazioni, le malattie infettive, la violenza maschile sulle donne etc.); il processo di “decisione” politica e giuridica ha avuto come rovescio principale l’escalation delle politiche securitarie basate su un approccio tendente all’autoritarismo illiberale, nonchè ancora basati sulla logica della “difesa sociale” attraverso dispositivi inediti anche sul piano della governance degli enti locali; infine l’ideologia della “prevenzione” dai rischi ha spesso mostrato il suo rovescio attraverso l’acuirsi di nuovi dispositivi dediti al controllo sociale.

Se la politica, le istituzioni e il diritto avrebbero dovuto adeguarsi ai mutamenti sociali introducendo una legislazione in grado di “gestire” i rischi stessi per garantire la sicurezza sociale dei cittadini, possiamo altresì affermare che questo trend ha spesso subìto una torsione negativa per cui la stessa sicurezza, negli anni passati, è in realtà divenuta un’ideologia politica altrimenti definibile come “securitarismo”. Assai spesso il “securitarismo” ha sostituito i principi fondamentali del garantismo giuridico e penale trasformandosi in mero potere decisionale a scapito di alcune categorie precise di persone: devianti, marginali e detenuti o ex-detenuti in modo particolare. Ragion per cui accanto alle tesi di Luhmann si sono andate stratificando numerose ricerche tese a mostrare tutti i rovesci negativi attraverso cui si è cercato di governare i rischi (Simone, 2010). A questo trend generale andrebbero aggiunti anche i processi di progressivo sgretolamento del legame sociale attraverso una centralità sempre più consistente dell’individuo e dell’individualismo; la crisi del Welfare State di novecentesca memoria; l’exploit del web e dei cosiddetti processi di “notiziabilità” sempre più tesi a cavalcare l’onda di una opinione pubblica risentita e rabbiosa verso le istituzioni e la cultura giuridica di matrice democratica e garantista (Ferrajoli, 2016).

Che cos’è il il populismo penale?

Il breve quadro delineato sinteticamente sopra ha generato un clima in cui la cultura giuridico-penale interna, fatta ancora di garanzie sociali per i detenuti e, in generale, per tutte le condotte ritenute “devianti” stride con ciò che potremmo definire come de-culturazione giuridica esterna, ovvero con tutte quelle forme di produzione dello stigma e del cosiddetto labelling approach (teoria dell’etichettamento sociale) su cui pare reggersi la costruzione dell’opinione pubblica contemporanea prodotta dai media e dai processi di “notiziabilità”. Questo processo potremmo definirlo attraverso la categoria di “populismo penale” ovvero quella forma della cultura sociale, politica e giuridica che tende ad affrontare i problemi sociali attraverso la produzione di allarmi sociali infondati, processi di colpevolizzazione sommaria, decretazione d’emergenza, inasprimento delle pene, riduzione delle risorse per il reinserimento sociale dei detenuti e delle marginalità sociali, produzione di una opinione pubblica sempre più diseducata alla cultura dei diritti fondamentali. Pratt, a tal proposito, ha individuato tre variabili interpretative attraverso cui comprendere meglio il fenomeno: 1) La glamourizzazione (glamourization); la destasticalizzazione (destatisticalization); la giustizia riparativa (restorative and reparative penalties) (Pratt, 2007). Con la prima variabile si indicano le trasformazioni relative ai processi di notiziabilità del crimine e della devianza messi a punto, in particolare dai visual media, sempre più orientati nella direzione dello stigma e dell’etichettamento sociale; con la seconda si indicano tutte quelle forme retoriche di produzione degli allarmi sociali infondati, come spesso dimostrano i trend statistici; con la terza si indicano tutte quelle forme di giustizia fondate su un risarcimento sociale per il danno inferto alla comunità, andando in deroga ai principi minimi del garantismo penale, della cultura della finalità rieducativa della pena e del reinserimento sociale dei detenuti (Pratt, 2007; Anselmi 2015). In sintesi, attraverso il fenomeno del populismo penale, l’insicurezza sociale generata da altri fattori, certamente non riconducibili alla funzione rieducativa della pena (Anastasia 2005), tende a strutturarsi attraverso una cultura della gogna mediatica, della costruzione del capro espiatorio, dello stigma, in un clima generale di dismissione della cultura del “garantismo penale minimo” e della cultura giuridico-penale basata sul reinserimento sociale dei detenuti e sulla funzione rieducativa della pena.

Stando al quadro appena delineato questo osservatorio, fruibile a tutti attraverso una piattaforma telematica in grado di monitorare, archiviare e rendere fruibile una narrazione sociale differente di tutte le forme di gogna mediatica, linciaggio telematico, produzione dello stigma (Goffman; 2003); ed etichettamento sociale (Baratta; 1980) con cui spesso si affronta il diritto al reinserimento sociale dei detenuti previsto dal nostro codice penale mira a:

  • Riavvicinare la produzione dell’opinione pubblica al sapere socio-giuridico dei principi dello Stato di diritto e del garantismo penale, rendendo più visibili le storture e le criticità.
  • Favorire la disseminazione nella società del lavoro svolto dal Garante dei detenuti della Regione Lazio.
  • Favorire il reinserimento sociale dei detenuti valorizzando le esperienze positive e decostruendo i processi di criminalizzazione secondari degli stessi all’interno della società.

Comitato Scientifico

Stefano Anastasìa insegna Filosofia e Sociologia del diritto e dei diritti umani nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli studi di Perugia. Fondatore e Presidente onorario dell’associazione Antigone, dall’estate del 2016 esercita le funzioni di Garante delle persone private della libertà per le Regioni Lazio e Umbria. Tra le sue pubblicazioni L’appello ai diritti. Diritti e ordinamenti nella modernità e dopo (Torino 2008), Metamorfosi penitenziarie. Carcere, pena e mutamento sociale (Roma 2012), con L. Manconi, V. Calderone e F. Resta Abolire il carcere. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini (Milano 2015) e con M. Anselmi e D. Falcinelli Populismo penale: una prospettiva italiana (Padova 2020).

Dario Ippolito insegna Filosofia del diritto, Logica e Argomentazione giuridica all’Università Roma Tre. Ha svolto attività di ricerca e didattica presso la LUISS, l’Università di Bari Aldo Moro e l’Università di Roma La Sapienza, dove è stato docente di Storia delle dottrine politiche e Storia moderna. Professeur invité presso l’École Normale Supérieure (Lyon), ha pubblicato numerosi saggi, tradotti in varie lingue. Ha lavorato come autore per Radio3 Rai.

Anna Simone (coordinatrice scientifica del progetto) insegna Sociologia del diritto e Sociologia giuridica della devianza presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli studi di Roma 3. Si è occupata di migrazioni, centri di detenzione, diritto e femminismo, giustizia sociale e neoliberismo, criminologia critica, sociologia del rischio e della sicurezza. Tra le sue ultime pubblicazioni: La società della prestazione (con F. Chicchi), Ediesse 2017; Rappresentare il diritto e la giustizia nella modernità. Universi simbolici, iconografia, mutamento sociale, Mimesis 2017; Femminismo Giuridico. Teorie e Problemi (con I. Boiano e A. Condello), Mondadori 2019. Ha curato, inoltre, la nuova edizione del volume di Alessandro Baratta, Criminologia critica e critica del diritto penale. Introduzione alla sociologia giuridico-penale, Meltemi 2019.

Gruppo di Ricerca

Ilaria Boiano, avvocata penalista e di diritto dell’immigrazione e protezione internazionale, è componente referente per i diritti delle donne migranti, richiedenti asilo e rifugiate dell’ufficio legale dell’Associazione Differenza Donna, di cui è socia dal 2009. Nel 2014 consegue il dottorato di ricerca in legge penale e diritti della persona presso la Scuola superiore Sant’Anna di Pisa nel 2014. È autrice di articoli e saggi in tema di diritti delle donne, violenza di genere e femminismo giuridico. Tra le recenti pubblicazioni Femminismo giuridico. Teorie e problemi con Anna Simone e Angela Condello per Mondadori Università, e Dai nostri corpi sotto attacco. Aborto e politica con Caterina Botti per Ediesse.

Xenia Chiaramonte (Palermo, 1987) è giurista e sociologa del diritto. Ha conseguito il dottorato in Law and Society nel 2017 e frequentato il master in Sociologia giuridica a Oñati. Ha svolto attività di ricerca presso la University of California di Berkeley (Center for the Study of Law and Society). Oggi insegna al Master in Criminologia critica delle Università di Bologna e Padova ed è redattrice online della rivista “Studi sulla questione criminale”. Ha curato il volume Violenza politica. Una ridefinizione del concetto oltre la depoliticizzazione (2018) insieme ad Alessandro Senaldi. Di recente ha pubblicato la sua prima monografia: Governare il conflitto. La criminalizzazione del movimento No Tav (2019).

Alberto De Nicola ha conseguito un dottorato di Ricerca in Sociologia ed è attualmente cultore della materia in “Sociologia giuridica, della devianza e mutamento sociale” presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Roma Tre, dove svolge attività di didattica integrativa. Coordina il lavoro editoriale del giornale online “DINAMOpress” (dinamopress.it). Per la casa editrice Mimesis, è in corso di pubblicazione la monografia L’informale. Povertà e crisi del Welfare.