Sono oltre mille i detenuti iscritti all’università

di Damiano Aliprandi, Il Dubbio, 22 maggio 2021

Sono 1.034 gli studenti detenuti iscritti alle università nell’anno accademico in corso (+ 30% nell’ultimo triennio) e, tra questi, spicca l’incremento della componente femminile, che è passata da appena 28 studentesse nel 2018- 2019 alle 64 di quest’anno (+ 129%). I dati sono stati diffusi a tre anni dalla nascita della Conferenza Nazionale Universitaria dei Poli Penitenziari (Cnupp) istituita dalla Conferenza dei Rettori delle Università Italiane.

In tutta Italia, la collaborazione tra atenei e istituti penitenziari interessa 196 dipartimenti universitari, il 37% dei dipartimenti presenti nei 32 atenei coinvolti. Le aree disciplinari più frequentate dagli studenti in regime di detenzione sono quella politico-sociale (25,4%) seguita dall’area artistico- letteraria (18,6%), giuridica (15,1%), agronomico-ambientale (13,7%), psico-pedagogica (7,4%), storico- filosofica (7,3%) ed economica (6,5%), con una fetta del 6% che riguarda altre aree.

Tra i prossimi obiettivi della Cnupp ci sono il miglioramento della qualità della formazione delle persone detenute attraverso modelli didattici innovativi (è in corso una prima sperimentazione per adottare strumenti per la didattica a distanza anche oltre la pandemia), delle performances degli studenti (diminuzione degli abbandoni, incremento degli esami sostenuti e dei laureati) e un lavoro di raccordo tra istruzione secondaria superiore all’interno delle carceri e gli atenei, migliorando la formazione del personale dell’amministrazione penitenziaria e sviluppare attività di ricerca sulle problematiche carcerarie.

Il diritto allo studio universitario per i carcerati, ha diversi richiami. Tale diritto si colloca nel contesto della riforma dell’ordinamento carcerario che aprì, nel 1975, gli istituti, se così si può dire, alla logica e ai discorsi – ancorché non al loro effettivo riconoscimento – dei diritti. Qui come in altri testi successivi, le formule utilizzate non sono così nette come l’affermazione di un vero e proprio “diritto” richiederebbe. All’art. 19 della legge 26 luglio 1975, n. 354 si afferma: “È agevolato il compimento degli studi dei corsi universitari ed equiparati”. Una agevolazione (assimilabile a un favore o a una concessione) che è cosa ben diversa dall’affermazione di un diritto pienamente esigibile.

Un po’ più diffusamente la questione è affrontata con il Dpr 29 aprile 1976, n. 431 (Regolamento di esecuzione della l. 26 luglio 1975, numero 354) che dedica agli studi universitari due articoli, (il 42 e il 44) in cui si ribadisce il principio dell’agevolazione per il compimento degli studi attraverso “opportune intese con le autorità accademiche per consentire agli studenti di usufruire di ogni possibile aiuto e di sostenere gli esami” e si afferma che gli studenti possono essere esonerati dal lavoro, a loro richiesta, e che vengono rimborsate loro le spese sostenute per tasse, contributi scolastici e libri di testo e viene corrisposto “un premio di rendimento nella misura stabilita dal ministero”.

Negli anni successivi, anche sulla base degli accordi sollecitati dal citato art. 42, si avviano in Italia molte esperienze in differenti istituti attraverso l’impegno di un numero crescente di università. Ma poco cambia sul piano normativo quando, con il Dpr 30 giugno 2000, n. 230 (Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà) si modifica quello del 1976.

L’articolo 44 riproduce il precedente 42, salvo l’aggiunta di un comma che pone l’attenzione sull’esigenza di garantire alcune condizioni che rendano più facile l’impegno per lo studio: “I detenuti e internati, studenti universitari, sono assegnati, ove possibile, in camere e reparti adeguati allo svolgimento dello studio, rendendo, inoltre, disponibili per loro, appositi locali comuni. Gli studenti possono essere autorizzati a tenere nella propria camera e negli altri locali di studio, i libri, le pubblicazioni e tutti gli strumenti didattici necessari al loro studio.

La lettura di questi articoli consente di sostenere che la questione entra sì nell’orizzonte del legislatore e del governo, ma in termini di possibili agevolazioni che saranno l’amministrazione penitenziaria e le direzioni dei singoli istituti a definire in termini concreti. Anche l’ultimo comma dell’articolo 44 sopra citato è, al proposito, indicativo: l’assegnazione dei detenuti studenti in camere e reparti adeguati e la messa a disposizione di locali comuni avviene “ove possibile”, così come “possono” essere autorizzati a tenere con sé quanto necessario per lo studio.

Nessun reale dovere è in capo ai responsabili degli istituti. E questo sia per le situazioni dei detenuti “comuni”, sia, a maggior ragione, per quei detenuti che, nel tempo e in virtù di specifiche normative riguardanti le loro condizioni, si sono ritrovati in sezioni connotate da esigenze di maggiore controllo (come i vari reparti per “protetti”, “incolumi”, collaboratori di giustizia) o da assoluto rigore rispetto ai contatti con l’esterno (in modo particolare, i reclusi nei circuiti dell’alta sicurezza o in 41 bis) che pure spesso sono interessati allo studio universitario.

A questo merita aggiungere che l’unica disposizione formulata in termini indicativi, subordinata solamente all’impegno a superare gli esami e al versare in condizioni economiche disagiate, ovvero il rimborso delle spese sostenute per tasse, contributi e libri, non risulta mai applicata, né qualche detenuto studente ha mai ricevuto il previsto premio di rendimento.

Sul piano delle norme di diritto positivo in vigore, questo è praticamente tutto. Negli anni più recenti, la questione del diritto allo studio universitario è tornata ad affacciarsi, purtroppo rimanendo sul piano delle ottime elaborazioni e delle pregevoli intenzioni, nei lavori degli Stati Generali sull’esecuzione penale che, nei loro documenti e nelle loro proposte, ne hanno ripreso il senso. Intanto affermando chiaramente che si doveva entrare in una ottica diversa, quella appunto di considerare lo studio un diritto, e prospettando alcune condizioni per renderlo effettivo: “l’istruzione e la formazione professionale sono da considerare come diritti ‘ permanenti e irrinunciabili’ della persona, nell’ottica di un processo di conoscenze e di consapevolezze che accompagna il soggetto per tutta la sua esistenza”.

Sappiamo che l’amplissimo orizzonte di riforme che dai documenti elaborati dagli Stati generali avrebbero dovuto trarre alimento si è tradotto in ben poca cosa. Così non stupisce che nei Decreti legislativi di riforma dell’ordinamento penitenziario approvati il 27 settembre 2018, poco cambi dell’impostazione del quarto comma dell’art. 19 della legge 26 luglio 1975, n. 354, che ribadisce come siano agevolati la frequenza e il compimento degli studi universitari e tecnici superiori, anche attraverso convenzioni e protocolli d’intesa con istituzioni universitarie.

Il termine “agevolazione” resta intatto, mentre non compare alcun riferimento al diritto. Solo aspetto interessante la modifica dell’art. 42 che riguarda i trasferimenti, in cui si prospettano due cose importanti: da un lato, l’esigenza di considerare lo studio (dunque anche la non interruzione di percorsi universitari avviati), tra i criteri da considerare per la disposizione di trasferimenti. Dall’altro, la necessità di dare risposta entro termini ragionevoli, alle richieste di trasferimento per motivi di studio, ad esempio per poter frequentare un corso di laurea in una università che offra questa opportunità ai detenuti.

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