Disabilità e carcere

di Ilaria Boiano, Università di Roma Tre

La legge n. 18 del 3.3.2009 “Ratifica ed esecuzione della Convenzione delle Nazioni Unite – CRPDI – sui diritti delle persone con disabilità” ha aperto un nuovo scenario di riferimento in materia di limitazioni funzionali[1].

La Convenzione delle Nazioni Unite supera il modello che vedeva nelle persone disabili dei malati e dei minorati e definisce la condizione di disabilità come il “risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali e ambientali”.

La nuova classificazione internazionale (ICF) definisce come condizione di disabilità la situazione delle persone con gravi difficoltà di carattere permanente in almeno una delle funzioni:

  • della vita quotidiana (lavarsi, vestirsi, spogliarsi, mangiare, avere cura della persona, sedersi e alzarsi dal letto e dalla sedia);
  • della mobilità corporea (es: di un arto);
  • della locomozione;
  • della comunicazione (vedere, sentire e parlare);
  • della inclusione e partecipazione alla vita sociale.

Il primo monitoraggio condotto a livello nazionale dei detenuti con disabilità risale alla rilevazione effettuata nell’agosto 2015 dall’ufficio IV servizi sanitari della direzione generale detenuti e trattamenti per monitorare l’applicazione dell’accordo linee guida in materia di modalità di erogazione dell’assistenza sanitaria negli istituti penitenziari per gli adulti implementazione delle reti sanitarie regionali nazionali approvato dalla conferenza unificata Stato regioni del 22 gennaio 2015: tenendo come riferimento la classificazione sopra menzionata, sono risultate 628 persone detenute in condizione di disabilità ed è stata adottata il 10 marzo 2016  la circolare dal titolo “La condizione di disabilità motoria all’interno degli istituti penitenziari-Le limitazioni funzionali” che detta le linee guida in materia di barriere architettoniche, formazione e assistenza sanitaria con lo scopo di migliorare le condizioni detentive garantire la massima autonomia possibile alle persone con disabilità private della libertà personale.

La popolazione ristretta con disabilità è collocata in strutture con spazi e servizi carenti e il dato è ancora più allarmante se si pensa che il 30% avrebbe anche i requisiti per accedere a misure alternative, che però non sono goduto a causa della mancanza di strutture adeguate sul territorio, per le scarse possibilità di trovare un’occupazione all’esterno, nonostante le varie forme di lavoro protetto ed è per questo che si arriva a parlare di disabilità nei termini di “pena nella pena”.

Il tema non era più rinviabile, considerato che anche il Comitato europeo contro la tortura (CPT), nella sua visita in Italia nel 2010 aveva rilevato la mancanza di continuità nel conformarsi al dettato legislativo da parte delle ASL e la carenza sanitaria delle strutture penitenziarie.

L’art. 65 co. 1 ord. pen. stabilisce che i soggetti affetti da infermità o minorazione fisica psichica devono essere assegnati a istituti o sezioni speciali per idoneo trattamento. Il comma successivo individua i soggetti da essi assegnare a tali istituti o sezioni in coloro che a causa delle loro condizioni non possono essere sottoposti a regime degli istituti ordinari.

Le strutture carcerarie con sezioni specializzate e corrispondenti ai criteri stabiliti dalla circolare del DAP del 2016 sono ancora poche, con conseguente rischio di trasferimento delle persone detenute in luoghi lontani dalla famiglia e dagli affetti.

Sul punto la circolare del 2016 stabilisce che gli operatori debbano procedere alla verifica della presenza di luoghi idonei alle esigenze della persona con disabilità, limitando la distanza dagli affetti e dalla famiglia, con una presa in carico tempestiva, come stabilito più volte dalla Corte EDU[2].

Nella circolare del 2016 il DAP propone soluzioni individualizzate puntando alla formazione degli operatori e dei cosiddetti detenuti caregivers, in attuazione delle raccomandazioni del CPT nel rapporto del maggio 2012: sono state promosse, in particolare, formazioni per i detenuti e per i piantoni supervisionati da operatori qualificati. La formazione così organizzata prevede una qualificazione specialistica per i detenuti coinvolti che ricevono l’attestato di qualifica come operatori socioassistenziali, così da poter essere assunti, alla fine della pena, come addetti all’igiene e alla pulizia, all’accompagnamento dei pazienti privatamente, in strutture sanitarie o comunità di accoglienza.

Foto di Ann H da Pexels


[1] UN, Convention on the Right of Persons with Disabilities, New York, 13 dicembre 2006.

[2] Corte EDU, sez. II, sent. 10 giugno 2008, ric. n. 50550/06, Scoppola c. Italia; Corte EDU, sez. II, sent. 7 febbraio 2012, ric. n. 2447/05, Cara-Damiani c. Italia; Corte EDU, sez. II, sent. 22 aprile 2014, ric. n. 73869/10, G. C. c. Italia .

I commenti sono chiusi, ma trackbacks e pingbacks sono aperti.