Se la Corte sceglie di non decidere

di Vladimiro Zagrebelsky, La Stampa, 16 aprile 2021

La Corte costituzionale, nel caso della disciplina del c.d. ergastolo ostativo, ha annunciato in un comunicato che nuovamente intende procedere affermando che la legge in vigore è incostituzionale, ma che la materia richiede l’intervento del Parlamento legislatore. Sospeso il giudizio per permettere al Parlamento di provvedere, la Corte deciderà con sentenza dopo intervenuta la nuova legislazione o in mancanza di essa.

Non si può non essere sorpresi dalla soluzione scelta dalla Corte. Essa ricorre al metodo utilizzato nel recente caso dell’aiuto al suicidio, in una ipotesi però in cui la necessità dell’intervento legislativo sembra inesistente. Come recentemente avvenuto per il caso dei c.d. permessi premio, che la legge escludeva per i condannati per delitti commessi in contesto di associazione mafiosa, quando il condannato non collabori con le autorità inquirenti, la Corte anche per la liberazione condizionale aveva la possibilità di provvedere dichiarando incostituzionale il divieto assoluto e rinviando la decisione alla valutazione del giudice di sorveglianza.

Stanti le precedenti posizioni espresse dalla Corte in materia penitenziaria sembrava certa una simile soluzione. E già si era alzata una preventiva protesta e denunzia di colpevole indebolimento della lotta alla mafia, che certo avrebbe investito anche la Corte. Ma i precedenti della Corte sono inequivoci ed anche, nello stesso senso, quelli della Corte europea dei diritti umani.

La Corte costituzionale ha già dichiarato la incostituzionalità del divieto di concessione di permessi premio quando non vi sia collaborazione con l’autorità, a causa della presunzione assoluta e non vincibile da prova contraria di perdurante pericolosità. Entrambe le Corti hanno già affermato che i c.d. benefici penitenziari, concessi o negati dal giudice di sorveglianza in considerazione dei progressi del detenuto, concorrono a rendere concreta e possibile la finalità di rieducazione che è propria della pena sia nella Costituzione, sia nella Convenzione europea dei diritti umani.

La Corte costituzionale ha già ritenuto incostituzionale che i permessi premio siano esclusi, senza che al magistrato di sorveglianza sia consentita una valutazione in concreto della condizione del detenuto, dell’effetto del passare del lungo tempo della detenzione e persino delle ragioni che hanno indotto il detenuto a mantenere il silenzio. Secondo la Corte costituzionale il decorso del tempo della esecuzione della pena esige una valutazione, che consideri l’evoluzione della personalità del detenuto e non una presunzione assoluta di pericolosità sociale.

E la Corte ha già avuto modo di riconoscere e affermare che “la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento”. Come per i permessi, anche per la liberazione condizionale gli argomenti già svolti dalla Corte costituzionale l’avrebbero facilmente condotta a dichiarare l’incostituzionalità del divieto puro e semplice di concessione della liberazione condizionale all’ergastolano non collaborante e a stabilire invece che, con rigorosi criteri probatori, decidesse caso per caso il giudice.

La Corte si è invece sottratta alla decisione e ha preferito evitare di provvedere. Affermando la necessità di un coordinamento legislativo della complessiva legislazione antimafia ha rinviato la questione al Parlamento. Se, come è spesso avvenuto, il Parlamento si rivelerà incapace di legiferare, la Corte sarà costretta a dire essa stessa con sentenza ciò che sembrava già ora discendere senza difficoltà dai suoi precedenti e dai principi costituzionali. Nel frattempo una legislazione incostituzionale resta in vigore.

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