Salute mentale in carcere, Antigone: “La parità di cure, un diritto necessario”

di Katya Maugeri, sicilianetwork.info, 28 marzo 2021

È un universo parallelo, ignoto e silenzioso. Quello della salute mentale in carcere è certamente un argomento complesso di cui si parla sottovoce. Il lavoro dell’associazione Antigone, per fortuna, continua a mettere in luce le ombre e dà voce ai silenzi e ai diritti umani.

Nel XVII rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione in Italia, Oltre il virus, sono presenti degli approfondimenti che raccontano la condizione attuale della salute mentale negli istituti penitenziari e la storia di M. Un detenuto presso il reparto di osservazione psichiatrica “Il Sestante” della Casa Circondariale di Torino.

La sua storia viene narrata da un familiare che si rivolge al difensore civico di Antigone preoccupato della situazione critica in cui si trova il ragazzo. M. subisce un trattamento sanitario obbligatorio che da quanto raccontato non risponde a nessuna perizia psichiatrica, pertanto viene denunciata l’assenza di test clinici adeguati che possano giustificare una corrispondente terapia.

Il ragazzo trascorre nove mesi continuativi nella cella di isolamento, la cosiddetta “cella liscia”, in cui la permanenza massima prevista dalla legge è invece di trenta giorni. Tenta il suicidio, ma viene fortunatamente salvato, ma chiaramente la sua condizione patologica peggiora notevolmente.

È solo dopo le numerose denunce pubbliche, la lucidità e la presenza della famiglia che a M. sono stati concessi i domiciliari e adesso si sta riprendendo. Nel 2020, si evince dai dati del Report, si sono registrati casi di suicidio che non si presentavano da tantissimo tempo.

“È importante raccontare la storia di M. per sollevare il problema irrisolto della salute mentale in carcere”. Spiega Michele Miravalle, coordinatore dell’Osservatorio di Antigone.

“Antigone chiede di garantire diritti e protezione a chi vive all’interno delle carceri italiane – continua Miravalle – e la parità di cure, principio giuridico e operativo che dobbiamo perseguire. Non c’è una ragione normativa etica, professionale per cui i servizi sanitari del territorio non entrino in carcere. Servono strumenti per tutelare la salute mentale del detenuto, occorre arrivare a una soluzione italiana con dinamiche costruttive ed evitare le situazioni drammatiche che continuano ad accadere”.

In questo ultimo anno determinato dalla pandemia, l’interruzione delle attività creative, formative e dei servizi socio-sanitario ne ha amplificato l’intensità perché di fatto si “è dato più spazio a una medicina di emergenza, di reazione e non di prevenzione”. Il Coronavirus con tutte le sue conseguenze sociali ha creato fortissimi disagi alle persone con disturbi mentali, sia fuori che dentro il carcere, aggravandone le condizioni.

Il carcere non è il luogo adatto in cui curare la patologia mentale e l’istituzione penitenziaria, per numerose ragioni (come la mancanza di risorse) non è nelle condizioni di gestire questo nodo complicato. Servirebbe una presa in carico individualizzata dei detenuti con disturbi mentali e invece si preferiscono soluzioni generalizzate.

“La parità di cure, che è il principio cardine, l’uguaglianza dal punto di vista di salute dei cittadini liberi e ristretti è il punto da cui partire. Ci sono istituti in cui lo psichiatra entra un’ora a settimana e deve vedere 150 detenuti non riuscendo, chiaramente, a fare il proprio lavoro. È necessario, pertanto, affermare questa parità e da lì trovare gli strumenti e fare entrare in carcere gli operatori della salute mentale in maniera efficace”.

Dal report Oltre il virus emerge inoltre un grande passo avanti, “il sistema Rems sta procedendo abbastanza bene: sono 32 le strutture italiane e nessuna con sovraffollamento. Risultati soddisfacenti anche nelle uscite, che chiaramente hanno bisogno di sostegno e di passaggi con le comunità. È un percorso importante e non era facile arrivare fino a qui”.

Il tema legato alla tutela della salute mentale in carcere rappresenta certamente uno dei nodi più complicati da sciogliere. È necessario rompere il silenzio e fermare lo stigma, garantendo cure adeguate per non aggravare la condizione del detenuto nel contesto detentivo.

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