Quel male inestirpabile

di Luigi Manconi, La Repubblica, 18 luglio 2021

Nel rileggere le cronache di vicende di violenza ai danni di persone inermi, capita di incontrare due definizioni tanto crude da richiamare i titoli di cupi racconti dell’orrore. O, meglio, di quel genere splatter, incline alla ricerca di effettacci macabri per compensare la carenza di talento degli autori. Eppure, espressioni quali “macelleria messicana” e “orribile mattanza” sono state utilizzate da funzionari dello Stato per dire lo sgomento davanti a crimini commessi da appartenenti alle forze di polizia, come nel caso della scuola Diaz (Genova, 21 luglio 2001) e del carcere campano (Santa Maria Capua Vetere, 6 aprile 2020).

Di fronte a ciò, l’interrogativo di fondo, quello che più fatica a trovare una risposta, è il seguente: come può accadere che decine e decine di poliziotti e, tra loro, donne, padri di famiglia e persone presumibilmente mature, si dedichino con tanta “competenza professionale” a massacrare individui indifesi? Quale processo emotivo e mentale li induce a farsi, all’occorrenza, “volenterosi carnefici”? Se non si prova a rispondere a queste domande ultime e, in prospettiva, a de-costruire il clima psicologico e sociale e i modelli culturali dominanti all’interno delle carceri, è fatale che quanto già è accaduto si ripeta. Dunque, si impone la drammatica urgenza di una diversa – radicalmente diversa – formazione degli appartenenti ai corpi dello Stato.

Questo comporta, innanzitutto, la piena acquisizione dei valori della democrazia e la convinzione irrinunciabile che il cittadino (detenuto o in libertà) non è un nemico da sopraffare, bensì un individuo da proteggere, all’interno e all’esterno delle mura della prigione. E che proprio il poliziotto è il primo tutore delle libertà individuali, dei diritti e delle garanzie della persona nella vita di tutti i giorni. Ecco, questa idea essenziale – fondativa tuttavia dello stato di diritto – appare lontanissima dalla mentalità che sembra prevalere nella gran parte degli operatori di polizia. Come afferma il magistrato di sorveglianza Riccardo De Vita, “non abbiamo avuto ancora il coraggio di affrontare la cultura e i modelli organizzativi” in questione (Il Riformista, 08.07.2021).

Non si ha avuto il “coraggio”, cioè, di criticare alle radici quel senso comune regressivo attraverso un processo di profonda democratizzazione interna. Molte le ragioni. La prima è che la classe politica, il governo e i ministri competenti sembrano nutrire una sorta di complesso di inferiorità nei confronti di questi apparati. Non da ora. Si pensi che l’unico a trovare parole adeguate fu, nel 1985, l’allora Ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro, che – a proposito della morte di Salvatore Marino – disse: “Non è possibile che un cittadino entrato vivo in una stanza di polizia, ne esca morto”.

Prima e dopo di lui, nessuno è stato capace di affermazioni altrettanto limpide, pur se ricordo un intervento di Giuliano Amato, nel 2007, affinché non venisse occultata la verità sulla morte di Federico Aldrovandi. Se nel corso di 75 anni di Repubblica, e in presenza di molteplici episodi di abusi e di violenze, i responsabili politici hanno costantemente taciuto, è inevitabile che quegli apparati abbiano sempre fatto prevalere lo spirito di corpo fino all’omertà.

Di conseguenza, i tentativi di democratizzazione, promossi sin dagli anni 70 da gruppi di poliziotti coraggiosi, hanno subito un progressivo arretramento o si sono esauriti nell’attività sindacale, tutta concentrata su organizzazione interna e rivendicazioni economiche (per altro sacrosante, considerato il basso livello degli stipendi).

Scarsissimo spazio hanno avuto la formazione culturale e lo sviluppo di una coscienza del proprio ruolo ispirata ai valori costituzionali. Ciò ha esasperato la tendenza, propria di tutte le “istituzioni totali”, a ripiegare su se stesse, costruite come sono sulla solidarietà di appartenenza e sul sospetto nei confronti di qualunque controllo esterno. Basti pensare che mai una volta sono stati dirigenti o sindacalisti a denunciare comportamenti illegali nell’imminenza dei fatti.

Un uomo intelligente come l’ex capo della polizia Franco Gabrielli, intervistato da Carlo Bovini (La Repubblica, 19.07.2017), definì la gestione del G8 di Genova “una catastrofe”. Parole apprezzabili, ma giunte tragicamente in ritardo, a 16 anni da quelle giornate del 2001.

Personalmente ho avuto modo di incontrare numerosi capi della polizia di Stato (De Gennaro, Manganelli, Pansa, Gabrielli) e dell’arma dei Carabinieri (Gallitelli, Del Sette, Nistri), accompagnando i familiari di vittime di abusi a opera di membri di quei corpi. Così abbiamo ascoltato dichiarazioni di “vicinanza” e promesse di impegno per l’accertamento della verità.

Ma tutto ciò sempre dopo. Parole postume, pronunciate solo quando era diventato impossibile negare le responsabilità. Prima c’erano sempre il silenzio, le omissioni e la richiesta di “non criminalizzare l’intero corpo”.

Mai una denuncia autorevole di quella sottocultura torva e paranoide, e sostanzialmente antidemocratica, che non appartiene certo a tutta la categoria ma che si ritrova diffusamente nelle chat e nei social di tanti poliziotti (e persino di alcuni sindacati). Questo forse contribuisce a spiegare perché mai, contro l’utilizzo dei poliziotti penitenziari come seviziatori, non siano stati gli stessi poliziotti penitenziari, mortificati in un ruolo di aguzzini, i primi a ribellarsi.

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