Quattro detenuti su dieci hanno problemi psichiatrici: curarli in carcere non sempre si può

di Federica Olivo, huffingtonpost.it, 12 aprile 2021

Il Partito Radicale ha lanciato un appello. Miravalle (Antigone): “Spesso non si va oltre i farmaci”. Zanalda (psichiatra): “Reparti speciali dovrebbero servire solo per la diagnosi”.

M. è un ragazzo detenuto a Torino. Si trova nel reparto di osservazione psichiatrica della Casa Circondariale di Torino, struttura – in ogni regione dovrebbe essercene una – dove vengono trasferiti i detenuti che hanno un problema di salute mentale.

Verso la fine di agosto tenta il suicidio. E, subito dopo – è il racconto che la famiglia ha fatto all’associazione Antigone – viene trasferito in una cella liscia. Vengono chiamate così le celle utilizzate a volte per chi compie atti di autolesionismo. Piccole stanze vuote, dove non c’è praticamente nulla, se non un materasso e pochi altri oggetti che non possano essere utilizzati come appiglio per eventuali gesti violenti contro se stessi.

Il vuoto, l’isolamento, l’assenza addirittura, nel caso di M., di acqua corrente, non aiutano certo a migliorare le condizioni di chi già ha una sofferenza. A solitudine si aggiunge solitudine. Il malessere si ingigantisce. I diritti restano fuori dalle sbarre. Lontano, troppo lontano dall’esistenza di M. e di chissà quanti altri come lui. La situazione è tale che, raccontano sempre i familiari, M. a un certo punto si trova senza acqua ed è costretto a bere quella del Wc.

Una condizione che si fa fatica anche solo a immaginare. Perpetrata ai danni di una persona che avrebbe bisogno di aiuto. Passano i giorni, la salute di M. non migliora. Ma come potrebbe, dato il trattamento subìto? Il giovane si trova a trascorrere nove mesi, senza interruzione, nella sezione dedicata alle persone che hanno un problema in fase acuta, nel reparto di osservazione psichiatrica. Per legge avrebbe potuto starci molto meno.

Questa storia è particolarmente cruda, rappresenta certamente un estremo. Ma rende chiaro il livello a cui si può arrivare laddove non vengano dati gli strumenti adatti per curare i detenuti con problemi psichiatrici, di varia natura. Quello della salute mentale in prigione è un tema annoso, di cui spesso però non si ha coscienza. Per avere un’idea di quanto sia grande il disagio del vivere in cella si possono guardare i dati dei suicidi: l’anno scorso sono stati 61, mai così tanti in 20 anni.

Al di là delle storie che arrivano al finale più tragico, ce ne sono tante altre, che restano nel mezzo. In una zona grigia di sofferenza nascosta. La vicenda dell’ex fotografo Fabrizio Corona, rientrato in carcere da poco e inizialmente condotto nel reparto di psichiatria dell’ospedale Niguarda di Milano, ha riaperto il dibattito. Ma dietro una storia nota, ce ne sono tante assolutamente sconosciute.

Lo sa bene Irene Testa, tesoriera del Partito Radicale, che nei giorni scorsi ha lanciato un appello alla ministra Marta Cartabia e al ministro Roberto Speranza, per sottolineare che la salute mentale in carcere è un problema di proporzioni enormi. E che bisognerebbe agire: “Ci sono tanti Corona negli istituti di pena italiani. Anime perse che hanno bisogno di supporto, cure, attenzione. Con questa iniziativa vogliamo accendere un faro sulla situazione – dice ad HuffPost – un malato psichiatrico non dovrebbe stare in carcere. O, almeno la detenzione, dovrebbe essere residuale”.

Dati ufficiali non ce ne sono e Testa si appella alla Guardasigilli, affinché li fornisca e “dia un’indicazione”. “È difficile fare una stima precisa – spiega ad HuffPost Enrico Zanalda, co-presidente della Società italiana di Psichiatria – perché la detenzione, già di per sé, può comportare il disturbo da adattamento. A questo si aggiungono situazioni più serie, come la schizofrenia e il disturbo bipolare. Bisogna poi tenere in considerazione il disagio che registrano i detenuti affetti da dipendenza dagli stupefacenti”.

Indicazioni importanti su quanti reclusi seguono una cura psichiatrica vengono fornite dalle associazioni che fanno le visite in carcere. Nelle percentuali che diffondono rientrano tutte le patologie psichiatriche, da quelle molto gravi a quelle più leggere. Analizzando i numeri viene in ogni caso fuori uno spaccato preoccupante.

Quattro detenuti su dieci in terapia psichiatrica, tra carenza di personale e pochi percorsi oltre il farmaco – Il 2020, anno della pandemia, per le carceri ha significato isolamento ulteriore. Colloqui in presenza bloccati, meno scuola, attività educative quasi azzerate. E, di riflesso, meno visite da parte delle associazioni. Anche per questo i dati sono parziali. Eppure utili ad inquadrare le dimensioni del fenomeno: “Nell’anno appena passato abbiamo visitato 44 istituti e abbiamo rilevato che il 36,81% dei detenuti è sottoposto a una cura psichiatrica”, ci spiega Michele Miravalle di Antigone.

Quattro persone su dieci, quasi. La situazione varia da istituto a istituto: si va dal 92,23% della casa circondariale di Bari al 5,71% di Poggioreale, a Napoli. Ci sono casi in cui la patologia era presente anche prima della detenzione e nella reclusione si aggrava. E casi in cui è il carcere che fa ammalare. “La situazione è grave e delicata – racconta ancora Irene Testa – a Cagliari, ad esempio, la percentuale è altissima. Nelle mie visite ho visto tante persone, soprattutto ragazzi, spaesati, sedati, avvinghiati alle sbarre della cella”.

Il panorama è desolante e, per quanto nelle percentuali prima citate siano inclusi sia problemi molto lievi che patologie gravi, gli esperti del settore avvertono la necessità di cambiare le cose. E di studiare percorsi che vadano oltre il carcere, almeno per una parte di queste persone.

Allo stato attuale, sono trattate nei reparti di osservazione psichiatrica. Quando i numeri diventano importanti, però, c’è il rischio che non si possa andare oltre una cura farmacologica. Che la sofferenza possa essere forse tamponata, ma non eliminata.

“In molti casi – spiega ancora Miravalle – i reparti psichiatrici diventano sezioni dove ci si limita alla cura farmacologica, senza nessun tipo di riabilitazione”. Non è sempre così, naturalmente. Ma quando si instaurano queste dinamiche – spesso dovute all’alto numero di detenuti in cura e alla carenza di personale – il rischio è che la salute del detenuto non abbia margini per migliorare. “La pandemia ha complicato le cose – continua Miravalle – data la difficoltà nel far entrare gli educatori in carcere”.

Ma, Covid a parte, mancano i medici: “Abbiamo calcolato che, in media, nelle carceri italiane lo psichiatra è presente 8.97 ore a settimana ogni 100 detenuti”. Un tempo chiaramente insufficiente per andare oltre la semplice prescrizione di farmaci. “Non c’è dubbio che ci sia carenza di specialisti – gli fa eco il dottor Zanalda – si fa spesso fatica a trovare gli psichiatri, in carcere ancor di più”.

Gli psicologi trascorrono un po’ di tempo in più nei penitenziari: 16.56 ore ogni 100 reclusi. Ma comunque non basta. Soprattutto negli istituti dove i detenuti che hanno bisogno di questo tipo di assistenza sono tanti. Il rischio che – anche nei penitenziari dove l’attenzione a queste problematiche è alta – siano abbandonati a loro stessi è elevato. Eppure le soluzioni ci sono.

Dalle misure alternative alla medicina del territorio: le strade aiutare i malati psichiatrici in carcere. Parola d’ordine: “Valutare caso per caso” – La domanda che ci si deve porre in questo caso è: la malattia psichiatrica è compatibile con il carcere? La risposta è: non sempre. Ciò su cui tutti concordano è che – senza aprire, per il momento, il capitolo dei non imputabili – per chi ha patologie importanti dovrebbero essere pensate soluzioni diverse dalla detenzione in cella.

“Una sentenza del 2019 – racconta ancora Miravalle – ha equiparato la malattia fisica a quella psichiatrica. Consentendo, in questo modo, di poter ottenere gli arresti domiciliari in caso di patologie gravi”. E in tutti gli altri casi? “Sarebbe utile che i servizi psichiatrici del territorio si occupassero anche delle carceri – sostiene Miravalle – in qualche caso i reparti di osservazione psichiatrica funzionano bene, ma occorre stabilire un modello da seguire”.

Una strada utile potrebbe poi essere quella delle misure alternative: “Ci sarebbe bisogno di strumenti flessibili. Si potrebbe pensare, ad esempio, di far trascorrere a queste persone un periodo in comunità, dove si posso rimettere al centro la loro salute”. “Il carcere dovrebbe rimanere un’opzione residuale”, sottolinea Irene Testa, che ricorda che alcuni provvedimenti potrebbero essere presi senza la necessità di cambiare le leggi. “I penitenziari non possono diventare i nuovi manicomi”, conclude.

Per il dottor Zanalda bisognerebbe procedere con per step: “I reparti di osservazione psichiatrica possono essere utili in un primo momento, per individuare il trattamento. Una volta che è stata stabilita la diagnosi, sarebbe opportuno fare in modo che a chi ha problemi più seri sia data la possibilità di scontare la pena fuori dal carcere. Chi invece ha patologie non incompatibili con la reclusione, dovrebbe essere riportato nel proprio istituto di provenienza e curato lì”.

E non nei reparti psichiatrici, dove troppo spesso i reclusi rimangono per un tempo molto lungo. C’è poi un aspetto ancora più delicato, e riguarda le persone che hanno commesso un reato, ma non sono imputabili, perché dichiarate incapaci di intendere e di volere. Alcune di loro non sono in carcere, ma in strutture dedicate. Molte altre restano in cella.

Le Rems, strutture per persone non imputabili: storia di un equilibrio precario, che può funzionare – La storia delle Rems, Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, inizia pochi anni fa. Quando per legge si dispone la chiusura degli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari. Sono 32 su tutto il territorio nazionale, attive dal 2015, e ospitano poco meno di 600 persone. Si tratta di soggetti che hanno commesso un reato ma non sono imputabili.

Una situazione ben diversa, quindi, da quella di chi inizia a soffrire di una patologia psichiatrica durante la detenzione. Sono pensate come luogo di transito, ma non sempre è così: “Le Rems sono strutture adeguate se il paziente vi permane per il periodo in cui deve essere stabilizzato, 6 mesi, un anno al massimo, e poi per lui si individua una via d’uscita. Il problema è quando si interpreta male il loro ruolo e si tende a considerarle come dei nuovi manicomi”.

C’è chi pensa che la soluzione per far uscire dalle carceri le persone con malattie psichiatriche sia trasferirle nelle Rems. Ma la funzione di queste strutture, secondo Miravalle, non è un’altra. Quella di un posto che può aiutare i rei non imputabili a essere riammessi alla società. E in molti casi succede: “Per ogni paziente in Rems ce ne sono sette in comunità”.

Significa che si può fare: che chi ha commesso un reato e non è capace di intendere e di volere può essere aiutato a ricominciare una vita. C’è, però, ancora un dato: non tutte le persone che avrebbero bisogno della Rems riescono ad accedervi. In carcere ci sono infatti molti detenuti che non sono imputabili e che quindi in cella non ci potrebbero stare. Secondo i dati disponibili sono circa 700. Una percentuale piccola rispetto al totale dei detenuti con problemi psichiatrici. Ma enorme, se pensiamo che la strada per queste persone dovrebbe essere tutt’altra.

I commenti sono chiusi, ma trackbacks e pingbacks sono aperti.