Quattro colonne in cronaca o un «romanzo» di mille pagine?

Storie terribili che hanno segnato la storia della nera sedimentandosi nel senso comune in un ricordo polarizzante, con vittime e colpevoli. Sono i potenti fatti di cronaca su cui i media hanno acceso le luci per mesi facendo vivere allo spettatore o al lettore un continuo, morboso e accecante, stato di febbrile informazione. Se si domandasse a un telespettatore o a un semplice passante chi uccise Sarah Scazzi le risposte sarebbero probabilmente la zia e la cugina. Ma se in verità il processo non fosse stato così lineare, lasciando parecchi dubbi? E in un caso in cui i colpevoli sembrano essere delineati sin da subito come quelli dell’omicidio di Luca Varani, seviziato per ore da Marco Prato e Manuel Foffo nell’appartamento di Roma di quest’ultimo, si domandasse al solito spettatore qual è stato il movente? La risposta cadrebbe probabilmente sulla mostruosità dei due e sulla cocaina, a rimarcare le distanze. Ma se le distanze fossero meno profonde?

Per questo motivo i libri, Sarah. La ragazza di Avetrana (Flavia Piccinni e Carmine Gazzanni, Fandango, pp. 311, 18 euro) e La città dei vivi (Nicola Lagioia, Einaudi, pp 472, 22 euro), usciti a poca distanza uno dall’altro, possono considerarsi difficili da digerire perché sono in grado di riaccendere le ossessioni dei protagonisti e di chi ha seguito le due storie, ricucendo la voragine fra la percezione e le informazioni effettivamente emerse. Con gli scrittori e i giornalisti che scardinano la narrazione giallistica della televisione, ricordandoci la complessità dell’umano, sia esso inteso come pubblico/spettatore o come attore della tragedia. Sbattendoci in faccia l’appiattimento dei dettami della velocità dell’informazione e la sua deriva nell’intrattenimento, così come il conseguente effetto framing, capace di selezionare per noi ciò che ci rassicura, spingendoci rapidamente verso considerazioni di circostanza. Lasciandoci quindi assoggettati alla presunta imparzialità e pluralità dell’etere.
Difficile non visualizzare nei ricordi, dieci anni fa, la figura di un padre impacciato col suo cappello da pescatore sempre in testa, succube del contesto familiare e sociale e che, per salvare le dispotiche moglie e figlia da una condanna, si addossò la colpa di un terribile reato. Un uomo che diventò per tutti zio Miche’.

Un nomignolo affettuoso conclamatosi a seguito di un morboso assedio mediatico di Avetrana che fagocitò «il caso Sarah Scazzi». La quindicenne scomparve il 26 agosto e venne rinvenuta oltre 40 giorni dopo nel pozzo all’interno della proprietà della famiglia Misseri. Poco a poco cronaca e illazioni non si distinsero più, portando l’informazione al livello di reality e talkshow insieme, tanto che alla madre Concetta venne comunicato in diretta, davanti alle telecamere di Chi l’ha visto, il ritrovamento del corpo. E come in un reality nacquero le tifoserie a cui gli interpreti principali offrirono sempre più particolari, riscuotendo applausi o insulti (e anche soldi per le interviste). Un cortocircuito fra vita e spettacolo che gli autori di Sarah paragonano al caso di Alfredino che nel 1981 entrò nelle case degli italiani con oltre 18 ore di diretta Rai.

Il libro nel lettore più spigliato può suscitare a prima vista diffidenza per il timore che vada a intercettare i lati scandalistici di quei mesi, ripercorrendo la rappresentazione immaginifica di un contesto degenerato dalla normalità, invece si tratta di un’accurata inchiesta giornalistica che ricostruisce l’humus della provincia senza iconizzarla, infilando piuttosto un’infinità di dubbi sul processo stesso. Analizzando la messa in scena di una tragedia in cui la vittima sparisce per far spazio a invidie, retroscena, fantasie. Dove non è la ricerca della verità a plasmare le notizie ma il contrario, un peso mediatico che forza e manipola il vissuto, e (forse) l’indagine degli inquirenti.

Parzialità
Dalla lettura se ne esce (anche) con il terrore che il destino possa virare all’improvviso, tutti noi possiamo ritrovarci immersi in una storia dove regna una parzialità che si allarga agli occhi dell’opinione pubblica fino a diventare ingestibile, in cui si può divenire colpevoli e in cui alla meglio si verrà giudicati anche per i piccoli segreti portati alla luce dall’abbondanza di sensazionalismo. Come se la propria storia, involontariamente, potesse entrare in qualunque momento nel solco di una narrazione accattivante, pronta a strizzare l’occhio alla morale collettiva e condivisa. Allontanando irrimediabilmente i fatti.

Ma se nella provincia l’attenzione si sposta dal generale di un atto macroscopico verso il particolare di una frase o di una particella del ristretto contesto che l’ha contenuto, nella metropoli si può partire dal particolare di una stanza per arrivare alla visione generale di una città. Avetrana e Roma. Come ci si può immedesimare con due tizi che, dopo tre giorni trascorsi a consumare cocaina e vodka, invitano a casa loro il ventitreenne Luca Varani per seviziarlo e ucciderlo? Due che si addormentano vicino al cadavere, si svegliano e finiscono a bere in un bar?

L’appartamento
Era il 2016. Nicola Lagioia indaga certo attraverso le carte, i verbali, le dichiarazioni, senza adottare gli stilemi giornalistici proprio per scandagliare il gesto inspiegabile anche da parte degli autori, avvalendosi però della cassetta degli attrezzi della letteratura e – sembrerebbe pericoloso scriverlo – dell’empatia. L’autore resta sin da subito attratto da quell’efferato fatto di cronaca e non ne capisce il motivo, c’è qualcosa che supera la notizia, un’attrazione maligna che lo costringe a fare i conti anche con la sua storia e un particolare momento sliding doors che ritorna a galla, dove per qualche centimetro anche il futuro Premio Strega sarebbe potuto diventare un assassino. E malgrado la sproporzione del suo gesto con quello di Foffo e Prato, lì sente che pulsa la stessa materia. La confessione catartica dell’autore si aggiunge a quelle dei due protagonisti, i quali però non sembrano compiere un atto esorcistico. Il male resta lì, fra le pareti dell’appartamento. La narrazione canonica è già alterata sin dal principio, stravolta. Lo scrittore, secondo J. Bruner, è in grado di andare oltre i copioni convenzionali e di condurre la gente a vedere gli avvenimenti umani con una luce nuova, a cogliere cose che non aveva mai «notato» e magari neppure sognato. Una connessione fra scrittore e assassini necessaria a radicalizzare un fatto fuori dalle categorie razionali, deviando il fatto verso il lato oscuro scortosi distintamente dentro chi, almeno una volta nella vita, ha percepito vicino il punto di non ritorno.

Un quadro quindi delle azioni dei due romani che comincia a sembrare meno lontano, la ricostruzione dei rapporti con i personaggi minori permette, di riflesso e con occhi nuovi, di scrutare se non proprio se stessi, almeno il vicino di casa, l’altro, non tanto come rischio/pericolo ma come essere potenzialmente mosso dalle stesse angosce e vuoti. Lagioia è attento a restare in equilibrio fra rappresentazioni della città e fatti, raccontando il pericolo di venire sbranato lui stesso da quella storia che giorno dopo giorno, fino all’ultimo, implode trascinandosi dietro chiunque tenti di avvicinarsi. Il disordine della stanza di Foffo che prende corpo sembra un concentrato di quella esterna, della città di Roma, la Capitale si veste di nero, una città commissariata, allo sbando, fascinosa e maligna. E in una scenografia così non c’è bisogno di una realtà aumentata.

Movente
L’assurdità dell’omicidio formalmente distanzia la comunità dagli assassini ma la mancanza di movente diventa un pericolo comune, personale, dove parrebbe (anche qui) che ognuno possa incappare, volontariamente o involontariamente, nel ruolo di vittima o carnefice. Anche per questo è intrigante scoprire come i singoli innervati di segreta «potenza» nietzschiana escano dal binario. Chi non ha mai sognato di deviare la propria ordinarietà? Per farlo esistono un ventaglio di opzioni disparate, quasi sempre ricacciate nei sogni (o negli incubi).
L’ibridismo del racconto con la cronaca azzera la finzione narrativa, non mette un punto sul caso e smussa i momenti di rottura biografica degli attori principali propri della letteratura. Una contrapposizione alla spaccatura originale con l’altro nella quale lo spettatore tende a trovare conforto – confermando il proprio io a distanza di sicurezza ma attivando comunque un fondamentale processo di mimesi. Nella lettura di libri simili si può attraversare l’inchiesta per affacciarci sulla società di oggi o di ieri, la cronaca (anche quando manipolata) diventa allora un punto di vista privilegiato che affonda nell’ontologia, superando ceto, età, censo. Modellando un altro essere umano diverso e uguale a noi.

Il giornalismo
In entrambi i libri il giornalismo, un certo tipo di giornalismo, viene smascherato. L’audience atomizzata più difficile da raggiungere e segmentata nei tanti «online», così come la crisi dei quotidiani, svantaggia la ricerca, lo studio, l’attenzione in favore di un’immediatezza che produce grandi titoli clickbait, a effetto, ma poca argomentazione. Pagine da riempire ogni giorno e ogni ora. Di qua, dalla parte dei lettori, si è costretti a comunicare e ad avere un’opinione. L’atto più nefasto, l’omicidio, allora viaggia su onde della percezione effimere che tendono a rafforzare solo il punto di vista che più si confà all’humus culturale dominante. In altre parole coesisto al meglio con me stesso schermandomi dall’altro, senza mettermi in ascolto e creare un legame fra la mia sofferenza e quella dell’altro (Byung-Chul Han). Se questo meccanismo di protezione è facile da smascherare quando si ha a che fare con la storia di un delitto efferato, in cui sin da subito non ravvisiamo punti di contatto con le nostre abitudini, lo è meno quando ci si confronta con la cronaca più spicciola, un furto, lo spaccio o tutto ciò che accade anche per motivi socioeconomici. Le notizie in questo caso sembrano scivolare sul lettore disinteressato, invero attecchiscono poco a poco nelle categorie di bene e male già consolidatesi nella cronaca più clamorosa.

Luoghi oscuri
Tornando indietro nel tempo un altro esempio ne è La scuola cattolica (Rizzoli, 2016) di Edoardo Albinati, l’autore ci mette di fronte ai massacratori del Circeo stesi sulle quasi 1300 pagine del romanzo (ma forse non è nemmeno giusto definirlo così), partendo proprio dalla scuola comune, la San Leone Magno di Roma, frequentata dall’autore e dagli assassini. In seno c’è l’urgenza di allargare le ombre di questo delitto terribile sull’ideologia maschilista di fine secolo strutturata sui rapporti di classe e su radici antropologiche ben più lontane. Tanti temi vengono trattati attraverso il filtro della psicologia del flusso di coscienza ma l’oscurità resta, anzi si fa più densa, e proprio perché il punto cruciale del saggio (torna la difficoltà per definirlo, biografia?) non è la violenza e quindi la cronaca, ma le onde che dall’esterno come cerchi concentrici si muovono al contrario di quelle create da un sasso lanciato in uno stagno, verso un unico momento e luogo, l’Armageddon dove si concentra il male. Che però viene appena evocato. Il fatto ha rilevanza anche e soprattutto per quello che c’è intorno, tanto che i diversi registri narrativi sembrano necessari per circoscrivere quanto più possibili traiettorie diverse della stessa umanità. E certo giammai ci si ritrova a giustificare – né tanto meno a metterci nei panni di – Ghira, Guido e Izzo, ma si può cominciare ad avere l’impressione che quella bestialità cresca nella società per qualche motivo. Attenzione, non è cosa da poco.

Un’altra volta la Puglia, siamo a Bari però. Per riprendere le parole di Wu Ming, uno spiazzante case study sulle narrazioni tossiche legate alla nera e alla propaganda è il libro Pozzi. Il diavolo a Bitonto (Edizioni Allegre, 2019) di Selene Pascarella che riporta alla luce la storia dei bambini annegati fra il ’71 e il ’72 nelle cisterne di Bitonto. Il giallo dei pozzi. Ma protagonista è la povertà delle famiglie di questi bambini e il giudizio della «brava» gente che condanna mamme, cugini, zii e poi nonne, producendo un casellario di orchi. Così come altri lavori: Sangue sull’altare. Il caso Elisa Clapsstoria di un efferato omicidio e della difficile ricerca della verità (Tobia Jones, Il Saggiatore, 2012, pp 307), Icarus. Ascesa e caduta di Raul Gardini (Matteo Cavezzali, Minimunfax, 2018, pp. 231) o La cronaca nera italiana nelle pagine del Corriere della Sera (Cesare Fiumi, Rizzoli, 2006, pp. 189). Il corpo a corpo ermeneutico con la cronaca (spesso ermetica) può diventare infinito se si volesse interpretare ogni protagonista od ogni azione che sviluppa la trama, scrittori e giornalisti stringono il campo facendo affiorare un senso unico, proprio (e si spera appropriato), un occhio di bue esclusivo delle vicende umane.

La verità, o meglio la narrazione della verità, si sprigiona a partire dal seme della curiosità con processi lunghi e faticosi. Questi possono diventare una sorta di autoanalisi e di sensibilizzazione che permette al lettore (come allo scrittore) di ascoltare finalmente cosa l’abbia penetrato del flusso mediatico. Ma soprattutto di individuare i denominatori comuni della sua vita (credenze, ideologie, frustrazione, etc.) con i protagonisti della storia così corrotta e dove i suoi (pre)giudizi morali hanno preso il sopravvento in favore di una logica binaria, scartando in direzione della confort zone dei buoni. Un esercizio di comprensione che si fortifica nella lettura di queste indagini e che può, per esempio, aprire uno spiraglio sul conformismo autoimposto dei social, produrre un sano sospetto nella notizia strillata. Ma soprattutto riproporzionare il frastuono della vita fuori con quella dentro.

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