Presunzione d’innocenza, non basta la direttiva europea

di Riccardo Polidoro, Il Riformista, 2 aprile 2021

La nostra Costituzione, all’articolo 27, prevede che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Sappiamo, purtroppo, che non è così e la “presunzione d’innocenza”, dopo oltre 70 anni, è continuamente violata, in nome di un’informazione sempre più veloce e di un’esigenza di visibilità di cui molti non riescono a fare a meno.

Quanto accade è da addebitare a un sistema Giustizia che non funziona e a un sistema mediatico sempre più aggressivo. “Sbattere il mostro in prima pagina”, citando l’indimenticabile film di Marco Bellocchio con Gian Maria Volontè, fa parte del lavoro del giornalista che, avuta la notizia, deve pubblicarla, ma dovrebbe comunque farlo nei limiti di una prudente valutazione dei fatti, delle fonti e del contesto.

Senza alcuna giustificazione, invece, le conferenze stampa di coloro che hanno svolto le indagini e ancora più gravi i casi di singoli soggetti, autori di attività investigative o venuti a conoscenza dei fatti per ragioni del proprio lavoro, che affidano all’amico giornalista la diffusione della notizia, magari in cambio di una bella fotografia.

A volte accade – invero non raramente – che il “mostro” sia invece un galantuomo al quale sono stati tolti dignità, affetti e lavoro. Della sua innocenza si saprà dopo anni di calvario giudiziario, ma egli sarà stato dimenticato dagli accusatori e dai voraci media che lo ignoreranno o lo relegheranno in un trafiletto a fondo pagina.

Giova ricordare, pur calcolando solo quelle per le quali vi è stato il risarcimento del danno, che le ingiuste detenzioni in Italia sono più di mille ogni anno, cioè tre al giorno. Nel 2019 la città di Napoli è stata quella con il maggior numero di casi indennizzati, ben 129, seguita da Reggio Calabria con 120 e da Roma con 105.

Nell’ottobre del 2019, la Procura di Napoli emanò un apposito ordine di servizio per l’accesso dei giornalisti agli uffici e per i criteri e le modalità di rilascio di copia dei provvedimenti giudiziari agli organi di stampa, nel tentativo di contemperare il diritto di cronaca, previsto dall’articolo 21 della Costituzione, con le garanzie dell’indagato.

Invero, alcun radicale mutamento sembrerebbe esserci stato sulla pubblicazione delle indagini. In tutta Italia, i media continuano a “bruciare” vite prima che arrivi la sentenza definitiva: nella maggior parte dei casi, prima ancora che l’indagato abbia piena conoscenza delle accuse.

Intanto la Camera, quasi all’unanimità, ha approvato l’ingresso nella legislazione italiana della direttiva europea 343 del 2016 che richiama il principio di non colpevolezza, già chiaramente espresso dalla nostra Costituzione: una buona notizia che lascia sperare in tempi migliori dopo quelli recentissimi, davvero bui.

Il “cambio di passo” è tanto importante quanto evidente e si avverte la presenza di un ministro della Giustizia finalmente autorevole e che vive per e di Costituzione. Ma dalla forma scritta alla pratica c’è di mezzo il mare e, nel nostro caso, l’oceano, popolato da pesci rampanti che vogliono venire a galla per mostrare quanto sono belli e bravi e magari aspirare a tane migliori. Tutta la nostra legislazione penale viene (r)aggirata ove non sono previste sanzioni.

I termini, per esempio, se non sono perentori, sono pressoché inutili. E ancora, quanti sono i provvedimenti di rigetto di richieste di proroga del termine delle indagini fatte dalle Procure? Si contano sule dita di una mano, tant’è che ormai gli avvocati non si oppongono più. Se davvero non vogliamo più vedere immagini di arresti, ascoltare le intercettazioni spesso interpretate anche da voci incattivite, ascoltare nomi d’indagati già descritti come colpevoli con “presunte sentenze” in cui sono indicate solo verità – queste davvero presunte, ma spacciate per indiscutibili e ormai definitivamente accertate – occorre prevedere delle sanzioni, per una vera tutela dell’indagato. Tutela che deve innanzitutto stabilire effettivamente la segretezza delle indagini e rivolgersi a chi ha il dovere e l’obbligo di farla rispettare.

In prima linea vi sono le Procure e la polizia giudiziaria, custodi degli atti d’indagine svolti e da svolgersi. Subito dopo i Giudici per le indagini preliminari destinatari delle richieste delle Procure, di autorizzazioni o di misure cautelari. Solo successivamente gli avvocati e va precisato che la loro conoscenza è del tutto parziale, riduttiva e comunque giunge in grande ritardo rispetto ad altri. Le notizie ufficialmente giungono dalle conferenze stampa delle Procure, di giorno in giorno più sofisticate e ricche di particolari. Ufficiosamente giungono da singoli “addetti ai lavori” per svariati interessi. Dunque, come intervenire? Qual è il deterrente capace anche di rispettare il diritto di cronaca e quello di essere informati?

Basterebbe prevedere che le Procure possano tenere conferenze stampa solo dopo l’esercizio dell’azione penale, cioè quando i capi d’imputazione si sono cristallizzati e vi è già stato il contraddittorio con la difesa. Inoltre andrebbe chiarito – anche al fine di una corretta diffusione della notizia e una esatta educazione dell’opinione pubblica – che quella diffusa è l’ipotesi accusatoria che dovrà essere verificata in giudizio. Si sposterebbe così – com’è giusto che sia – l’attenzione mediatica sul processo, unico strumento per accertare la verità.

Gli altri canali d’informazione dovranno trovare immediate sanzioni disciplinari. Il tema della “presunzione d’innocenza” non è terreno di battaglia tra garantisti e colpevolisti: è un principio costituzionale e pertanto va rispettato sempre, senza indugi, ancor prima di guardare all’Europa.

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