Potere psichiatrico e potere giudiziario, il caso Vattimo

di Alessandro Dal Lago, Il Manifesto, 12 giugno 2021

A più di 50 anni dal caso Braibanti, il reato di “circonvenzione d’incapace” definito dal nostro codice penale, non è che una variante di quello di plagio. Sono passati più di 50 anni dal “caso Braibanti”, la persecuzione di un intellettuale antifascista, ex-partigiano giustificata da un reato, il plagio, che fu poi cancellato dal codice penale. Risalgono ai primi anni Settanta gli studi foucaultiani sul potere psichiatrico e la sua connivenza con i sistemi punitivi, giudiziario e carcerario. Quarant’anni anni fa, moriva Franco Basaglia, medico e filosofo decisivo nel liberare gli internati dalle catene, metaforiche e non, di una psichiatria oppressiva e punitiva.

Questa progressiva liberazione della sofferenza personale, della marginalità sociale e dell’indipendenza esistenziale dall’oppressione legalizzata – giudiziaria o para-scientifica che sia – sembra un mero ricordo, svanita com’è nell’attuale ritorno di una pratica psichiatrica legata a concezioni arcaiche della vita psichica e basata sugli psicofarmaci, sulla contenzione e sulla segregazione. Lo dimostrano i casi di diversi centri per la salute mentale nell’Italia del nord a cui l’amministrazione di destra, con il contributo decisivo leghista, ha imposto direttori culturalmente reazionari, in certi casi denunciati per gli abusi commessi sulle persone di cui dovrebbero prendersi cura.

Ma lo dimostra anche il ritorno di un’alleanza diffusa tra potere psichiatrico e potere giudiziario-inquisitivo, come è manifesto nell’incredibile caso in cui è coinvolto il filosofo Gianni Vattimo. Apprendiamo infatti dalle cronache che un convivente di Vattimo, Simone Caminada, è stato rinviato a giudizio per “circonvenzione d’incapace” dopo che uno psichiatra torinese, tal Franco Freilone, ha giudicato Vattimo, in una perizia disposta dal pubblico ministero Giulia Rizzo, “circonvenibile”, in sostanza incapace di giudizio autonomo. L’oggetto della “circonvenzione” sarebbe costituito, naturalmente, dal patrimonio del filosofo, come dimostrato – secondo l’accusa – dai benefici economici ottenuti da Caminada.

Conosciamo da circa quarant’anni Gianni Vattimo, con cui abbiamo collaborato in diverse occasioni, da “Il pensiero debole” (Feltrinelli 1983) a diversi annuari filosofici e volumi collettivi curati da Vattimo e pubblicati da Laterza. Recentemente, abbiamo partecipato con lui a incontri e seminari. Lo riteniamo non solo una delle menti più brillanti della filosofia italiana, come è anche dimostrato dal suo grande riconoscimento internazionale, ma un uomo libero, buono e generoso. Le sue prese di posizione a favore dei movimenti sociali di liberazione, degli oppressi e degli esclusi dimostrano inoltre un’apertura politica e culturale di cui raramente molti pensatori, italiani e non, si sono dimostrati capaci.

Ci rifiutiamo di credere che la sua militanza nei movimenti omosessuali e la sua nota vicinanza alla sinistra radicale siano state determinanti nel rinvio a giudizio del suo amico e convivente, nonché nella valutazione di una sua incapacità di giudicare. È davvero sconcertante, anzi grottesco, che, proprio nel momento in cui la casa editrice Nave di Teseo dà alle stampe la sua opera filosofica completa, qualcuno, in base a un mandato giudiziario, contribuisca a coinvolgerlo in un processo. Parliamo di un uomo di 85 anni, che ha sofferto diverse perdite personali ma che, nonostante tutto, è attivissimo in campo intellettuale. Ci chiediamo inoltre come tanti suoi allievi e colleghi, filosofi e non, che Vattimo ha aiutato a imporsi sulla scena intellettuale e mediale, tacciano. Sarebbe imperdonabile se si trattasse di una sorta di realismo politico, o peggio personale, applicato al pensatore e all’amico.

Ma il punto è anche un altro. Riteniamo che il reato di “circonvenzione d’incapace”, così come definito dal nostro codice penale, non sia che una variante di quello di plagio. E che soprattutto comporti una svalutazione “a prescindere” dell’indipendenza personale che non dovrebbe avere cittadinanza in una società che si presenta come “liberale”.

Oggi parliamo di Vattimo, perché siamo personalmente toccati dalla sua vicenda. Ma dovremmo parlare anche e soprattutto della penetrazione dei poteri – giudiziari e non – nella vita privata dei cittadini. Crediamo che il caso di Vattimo dovrebbe innescare un dibattito sul modo in cui una società, che si riempie la bocca di parole sulla libertà personale, tratta chi decide di beneficare in qualsiasi modo le altre persone, in base alla sua esclusiva libertà di giudizio.

I commenti sono chiusi, ma trackbacks e pingbacks sono aperti.