Non è un fenomeno isolato, non chiamateli “mele marce”

di Valentina Stella, Left, 9 luglio 2021

La mattanza di Santa Maria Capua Vetere ha radici profonde e rivela problemi strutturali nel sistema carcerario, dice il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma. “Occorrono radicali interventi nella formazione della Polizia penitenziaria”.

La ministra della Giustizia Marta Cartabia, in merito a quanto avvenuto nel carcere campano di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020 a seguito di alcune rivolte nate dalla paura della diffusione del Covid dietro le sbarre, ha parlato di “tradimento della Costituzione” e di “un’offesa e un oltraggio alla dignità della persona dei detenuti e anche a quella divisa che ogni donna e ogni uomo della Polizia penitenziaria deve portare con onore”.

117 indagati, 52 persone raggiunte da misure cautelari, accusate a vario titolo di torture pluriaggravate, maltrattamenti pluriaggravati, lesioni personali pluriaggravate, falso in atto pubblico aggravato, calunnia, favoreggiamento personale, frode processuale e depistaggio.

Tenendo fermo il principio di presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva, tuttavia fa orrore quanto scrive la Procura sammaritana: “Il personale di Polizia penitenziaria aveva formato un “corridoio umano” al cui interno erano costretti a transitare indistintamente tutti i detenuti dei singoli reparti, ai quali venivano inflitti un numero impressionante di calci, pugni, schiaffi alla nuca e violenti colpi di manganello”.

A ricevere le prime segnalazioni delle violenze è stato il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, un faro sempre acceso nel buio delle prigioni.

Garante, cosa ha provato appena ha visto il video pubblicato dal Domani in cui agenti della Polizia penitenziaria malmenavano moltissimi detenuti inermi e inginocchiati?

La prima impressione è stata quella di uno sguardo al passato, del tipo “Siamo ancora qui”. Quelle immagini mi hanno ricordato Genova, Bolzaneto. Trovarsi a 20 anni di distanza dai fatti del GR del capoluogo ligure dinanzi a qualcosa che ricorda quei terribili giorni è particolarmente triste. Poi quelle immagini mostrano l’assenza di una qualunque catena di comando, una specie di branco che si getta contro altre persone.

Anche l’utilizzo da parte di alcuni agenti penitenziari di affermazioni del tipo “abbattiamoli come vitelli” sanno di tifoserie da stadio da parte di gruppi di identità debole che si ritrovano in una falsa identità forte di tipo aggressivo.

Inoltre quelle sequenze di violenza testimoniano un’operazione compiuta con la certezza dell’impunità, perché portata avanti nonostante le telecamere. Tutto ciò non è accettabile. L’altra riflessione è stata quella di interrogarmi su quali fossero le vittime. Ce ne sono di tre livelli: il primo livello di vittime è rappresentato dalle persone che hanno subito le violenze.

Ed è paradossale perché talvolta quelle persone possono essere detenuti che hanno commesso reati gravissimi o hanno assunto nel carcere comportamenti aggressivi, ma nel momento in cui diventano oggetto di quelle violenze si trasformano indiscutibilmente in vittime. Il secondo gruppo di vittime è costituito proprio dal Corpo di Polizia penitenziaria e più in generale dall’Amministrazione penitenziaria, perché quelle azioni mostrate in quel video offendono la stragrande maggioranza di persone che lavora onestamente.

Il terzo livello di vittime è – ahimè – questo Paese, in quanto quelle immagini gireranno, daranno l’idea che quello è il nostro livello di civiltà. Tutto ciò è abbastanza triste ma richiede una spinta forte di sradicamento di certi comportamenti e di certi contesti.

Secondo lei si tratta di un episodio isolato o il problema è strutturale, anche dal punto di vista culturale, del custode verso i custoditi?

Secondo me esiste il rischio che si tratti di un problema strutturale: l’impreparazione all’uso legittimo della forza nel rispetto delle persone e della loro dignità. Ciò non vuole dire che siamo in presenza di un fenomeno generalizzato ma neanche che sia isolato. In questo caso ci sono 117 indagati, sarebbe riduttivo parlare di qualche “mela marcia”. Ultimamente come Garante mi sono presentato come “persona offesa” in più procedimenti in cui si ipotizzano pestaggi, violenze e tortura contro i detenuti. Anche in questo caso distinguo queste situazioni in tre diversi livelli.

Da un lato ci può essere quella violenza reattiva, sempre ingiustificata, nei confronti di un detenuto che ha insultato o provocato un agente che nel reagire dimentica di indossare la divisa. Poi c’è quel tipo di violenza, come accaduto a Torino e su cui la magistratura sta indagando, in cui si facevano una sorta di processi sommari per dare una aggiunta di punizione a coloro che rispondevano di reati particolarmente gravi e infamanti come quelli sessuali o su minori. A tale tipo di condotta non va assolutamente dato alcun segnale di impunità.

In ultimo c’è il terzo livello di violenza che abbiamo riscontrato nel carcere sammaritano che viene descritto dai magistrati come “operazione punitiva”. Si tratta di modelli diversi che, se è vero che non rappresentano i 40mila agenti della Polizia penitenziaria, tuttavia necessitano di tre profonde riflessioni, a partire dalla formazione. Occorre infatti un radicale intervento sui percorsi formativi, iniziali e nel corso della carriera, che sappia estirpare quella cultura del branco che emerge troppo spesso e che si ritrova anche negli atti del provvedimento della Procura di Santa Maria Capua Vetere. Su quest’ultimo tema abbiamo da tempo condiviso la necessità di intervenire sulla formazione in incontri con i vertici di tutte le forze di Polizia.

Lei è d’accordo sull’introduzione dei codici identificativi per riconoscere i singoli ufficiali di polizia?

Sulla identificabilità delle persone che operano in situazioni complesse sono d’accordo dagli ultimi trent’anni. Avevo ribadito tale necessità proprio dopo i fatti del G8 di Genova, soprattutto per quegli agenti che operano nelle manifestazioni. In altri Paesi già è prevista e laddove non l’ho vista, nella mia esperienza internazionale, si trattava di Stati a democrazia più debole. In Italia dobbiamo sicuramente tornare a discuterne e cercare anche delle modalità attenuate per non far ricadere, ad esempio sul singolo, i risarcimenti civili. Possiamo immaginare che l’identificativo non sia della singola persona, ma dì una piccola unità di appartenenza. Possiamo essere d’accordo che siano identificati i caschi e non la persona. Insomma, possiamo trovare tutte le forme che, pur individuando la responsabilità penale, non espongano persone, spesso giovani, a forme risarcitorie personali. Non dobbiamo distruggere vite ma allo stesso tempo che le inchieste debbano essere archiviate perché non si è riusciti ad identificare le persone pur avendo degli elementi che ci dicono che una determinata operazione è avvenuta è un segno di arretratezza democratica molto forte.

Secondo lei non sarebbe stato giusto trasferire in via cautelare gli agenti indagati?

Sono dell’idea che la custodia cautelare debba essere una misura estrema. Mi sono dunque chiesto quali possano essere state le esigenze per disporre la carcerazione preventiva nei confronti di 8 agenti ad un anno e tre mesi dai fatti. Poi però quando mi sono accorto che le persone indagate in gran parte hanno continuato a lavorare sempre nel carcere di Santa Maria Capua Vetere mi sono chiesto: se fossero stati spostati ad altri istituti forse ora sarebbe venuta meno l’esigenza cautelare?

Il leader della Lega Matteo Salvini la scorsa settimana si è recato presso il carcere campano e all’uscita dal colloquio con la direttrice ha risposto alle domande dei giornalisti. Ad una collega che gli ha chiesto se anche lui ritenesse quanto accaduto una “orribile mattanza” come scritto dal Gip, Salvini ha replicato: “La mattanza è stata la rivolta che c’è stata in questo e in altre carceri”. Lei che ne pensa?

Ho letto anche una dichiarazione di Salvini molta ferma nei confronti di chi ha sbagliato. In merito alla sua domanda, non spetta né a me né al senatore Salvini stabilire qual è la mattanza. Questa valutazione spetta al giudice.

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