L’ordinamento penitenziario e le evoluzioni del sistema sanzionatorio nell’ordinamento italiano

di Ilaria Boiano, Università di Roma Tre

L’ordinamento penitenziario ricomprende il complesso di disposizioni in tema di esecuzione delle pene privative e limitative della libertà personale contenute nelle leggi, nei regolamenti, nelle circolari ministeriali, nei codici penale e di procedura penale[1].

La ricostruzione che qui si offre, per quanto breve e ricognitiva, si propone di dare conto dell’evoluzione storica della disciplina e delle traiettorie filosofiche e politiche che vi sono sottese per fornire una fotografia complessiva del sistema e degli istituti rilevanti in tema di pena se sua esecuzione nell’ordinamento e nella società.

I termini “pena” e “sanzione penale” evocano l’idea di un castigo inflitto all’autore di un fatto illecito quale reazione pubblica alla violazione della legge penale: riflettere su questa reazione e sulle finalità che lo Stato persegue attraverso la pena consente di riflettere più in generale sui diversi modelli di società e di Stato.

Tre idee-guida storicamente strutturano il dibattito sul sistema sanzionatorio, combinandosi tra loro per poi, a seconda delle congiunture storiche, politiche e sociali, prevalere l’una sull’altra[2]: retribuzione; prevenzione generale, prevenzione speciale.

L’idea della retribuzione intende la risposta sanzionatoria penare come “compensativa” della colpa per il male commesso (puniatur quia peccatum est) e implica il concetto di “proporzione della pena”: la sanzione penale deve essere commisurata alla gravità del reato commesso[3].

L’idea della prevenzione generale sottende, invece, una concezione di deterrenza collettiva della pena: le persone sono distolte dal compiere fatti socialmente dannosi dinanzi alla “minaccia” della sanzione penale: la speranza sottesa a questa prospettiva è quella di attuare attraverso le norme penali un progetto di orientamento culturale delle condotte individuali[4].

La prevenzione speciale, infine, mira a incidere sul comportamento individuale di un determinato soggetto e parte dal presupposto che la pena comminata al singolo a seguito del suo agire contra legem possa evitare che la stessa persona compia in futuro altri reati. In questa prospettiva, la pena può tendere finalisticamente alla risocializzazione ovvero può perseguire l’emenda morale del reo[5].

Il legislatore italiano del 1930 riorganizzò il sistema sanzionatorio intorno ai poli della prevenzione generale e speciale, cercando una convergenza tra la Scuola classica, di ascendenza illuministico-liberale e a difesa della concezione retributiva della pena[6], e la Scuola positiva che, al contrario, proponeva un sistema sanzionatorio da adeguare al “tipo di delinquente” con finalità terapeutiche rispetto ai delinquenti ritenuti “recuperabili”, e con finalità neutralizzanti per coloro che fossero giudicati “irrecuperabili”[7].

In concreto, da questa politica del diritto è derivato il sistema sanzionatorio del doppio binario: a fronte del compimento di un illecito penale, l’ordinamento affida la prevenzione generalealla pena, che la realizza «mediante l’intimidazione derivante dalla minaccia e dall’esempio»[8], prevenendo «vendette e rappresaglie» private grazie alla sua ulteriore funzione satisfattoria.

La prevenzione speciale, invece, è affidata dal legislatore alle misure di sicurezza, concepite per neutralizzare la pericolosità sociale dell’autore di reato allo scopo di evitare la commissione di reati futuri, rapportate alla tipologia del delinquente (recidivo o abituale, infermo di mente, minorenne).

Il sistema sanzionatorio così delineato si regge sui concetti di imputabilità e pericolosità sociale in un dualismo che ha orientato a lungo il dibattito e gli studi sul tema e che le istanze riformiste contemporanee mirano a superare definitivamente promuovendo il principio costituzionale del minor sacrificio necessario della libertà personale[9].

La pena nella Costituzione

Le istituzioni carcerarie rimasero strutturate dall’Unità d’Italia secondo tre punti di forza rimasti immutati fino alla riforma degli anni Settanta:

  1. l’impermeabilità e l’isolamento dalla società libera, così da porre le persone recluse in un contesto di totale emarginazione e separazione «ben oltre le esigenze di sicurezza destinate ad accompagnare la pena privativa della libertà»[10];
  2. la violenza delle relazioni all’interno delle strutture carcerarie quale regola di governo delle relazioni all’interno delle strutture;
  3. il centralismo e verticismo dell’amministrazione penitenziaria, che si è tradotto in un rapporto di rigido controllo gerarchico tra i vari organismi e in una gestione burocratizzata della vita all’interno delle strutture penitenziarie con l’alto rischio di ulteriori violenze.

Con la caduta del fascismo si avviò un tormentato ma profondo processo di riforma istituzionale che fissò un nuovo sistema di principi e valori anche in ambito penale: l’articolo 27 comma 3 della Costituzione repubblicana sancì quali principi cardini in materia di esecuzione della pena il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e la finalità rieducativa della pena[11].

La portata innovativa degli enunciati costituzionali si è espressa in concreto attraverso un ripensamento del sistema sanzionatorio confluito in un progetto di riforma complessiva del diritto positivo che si è dispiegato negli anni successivi all’approvazione della Costituzione repubblica, seppure con un freno da parte della giurisprudenza prevalente: diffusa, infatti, a lungo è stata l’idea di una finalità rieducativa della pena solo eventuale.

La Corte costituzionale da un lato puntualizzò la natura di precetto costituzionale del finalismo rieducativo della pena sancito dall’articolo 27 Cost., sottolineando però che la rieducazione del condannato «non può spingersi a negare l’esistenza e la legittimità della pena laddove essa non contenga o contenga minimamente, le condizioni idonee a realizzare tale finalità», affermando la piena compatibilità della finalità rieducativa della pena con ulteriori finalità proprie della pena che si rivelano «essenziali alla tutela dei cittadini e dell’ordine giuridico contro la delinquenza e da cui dipende l’esistenza stessa della vita sociale»[12].

La Corte costituzionale ha proseguito su questa linea con la sentenza 28 gennaio 1971, n.22 collegando l’efficacia rieducativa della pena al suo regime di esecuzione e non escludendo nelle successive sentenze anche la legittimità della previsione dell’ergastolo, poiché la «dissuasione, prevenzione e la difesa sociale stiano non meno della sperata emenda alla radice della pena»[13].

Con continuità in diverse pronunce, la Corte costituzionale ha sostenuto questa natura polifunzionale della pena: quella di prevenzione generale e difesa sociale, con i connessi caratteri di afflittività e retributività, e quelle di prevenzione speciale e di rieducazione, finalità tra le quali la Corte riteneva di non poter stabilire una gerarchia a priori statica e assoluta[14].

Il finalismo rieducativo introdotto all’articolo 27 comma 3 Cost., non è rimasto però vuoto enunciato e si è consolidato nel tempo come criterio guida delle riforme intervenute nell’ordinamento come  approfondito dalla Corte costituzionale, pur non registrandosi uniformità di linguaggio: la Corte, infatti, intende la rieducazione nei termini di “reinserimento nell’ordine sociale”[15] o “riadattamento alla vita sociale”[16], oppure come “reinserimento nel contesto economico e sociale”[17] “nel corpo sociale”[18], reinserimento nella società[19] o nei termini di “ravvedimento o recupero sociale[20], “reinserimento del condannato nel consorzio civile[21], “risocializzazione” del condannato[22].

La riforma dell’ordinamento penitenziario

L’espressione più ampia del finalismo rieducativo sancito dalla Costituzione è la riforma dell’ordinamento penitenziario introdotta dalla legge 26 luglio 1975, n. 354, che riconosce nella fase dell’esecuzione della pena il vero ambito di elezione del principio costituzionale, poiché quest’ultimo dipende non solo dalla durata della pena, rimessa alla valutazione del legislatore e a quella del giudice nell’irrogazione in concreto, ma soprattutto dal suo regime di esecuzione.

La riforma dell’ordinamento penitenziario matura in un contesto storico e culturale già orientato a livello sovranazionale dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali[23], dalle Regole minime per il trattamento dei detenuti Ris. O.N.U. 30.08.1955 e dall’analogo documento adottato dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa con la risoluzione n. 5 del 1973.

La riforma interveniva a produrre una rottura definitiva con la politica criminale del regime autoritario fascista che esaltava il carattere afflittivo della pena, promuovendo una visione sistemica dell’esecuzione penale scandita da diritti e garanzie per i detenuti nel contesto di un carcere che si sarebbe dovuto “aprire all’esterno” così da agevolare il reinserimento sociale dei detenuti (articolo 1, comma 6 ord. penit.)[24], superando l’idea del carcere come luogo di isolamento, esclusione ed emarginazione.

Elementi qualificanti la riforma sono l’introduzione di misure alternative alla detenzione e i principi del trattamento del detenuto, che configurano una detenzione volta al recupero e alla socializzazione del soggetto.

Il termine “trattamento” comprende il complesso di norme e di attività che regolano e assistono la privazione della libertà per l’esecuzione di una sanzione penale[25] e nell’ambito del trattamento penitenziario si inserisce il trattamento rieducativo, inteso quale complesso di attività che l’Amministrazione penitenziaria è chiamata a svolgere nel corso dell’esecuzione della pena per risocializzare la persona detenuta, posta al centro dell’impianto normativo penitenziario, in quanto protagonista attiva e fine ultimo dell’esecuzione penitenziaria, restituendo così la dignità di soggetto di diritto a una parte della popolazione che storicamente è stata considerata dall’ordinamento giuridico, e anche socialmente, del tutto priva di diritti[26].

La pena come considerata dalla Costituzione e la concreta “fenomenologia punitiva”[27] appaiono in concreto ancora molto distanti e si rileva la compresenza, di fatto, di modelli eterogenei di punizione, tanto da indurre la dottrina, ormai da anni, a parlare di disintegrazione del sistema sanzionatorio[28].

Se è vero che la tematica dell’abbandono della pena detentiva si è arricchita di nuove istanze e obiettivi che partono dalla sostanziale inconciliabilità della privazione della libertà personale con il trattamento rieducativo, che hanno stimolato numerosi interventi legislativi, il sistema nel suo insieme rimane ancora centrato sul carcere.

A ciò si aggiunga l’attuale politica del diritto penale orientata dal populismo, con iniziative legislative spesso funzionali a obiettivi di immediato consenso sociale che riabilitano concezioni autoritarie e “vendicative” della sanzione penale[29], con esiti sul discorso pubblico particolarmente preoccupanti, poiché appaiono progressivamente normalizzare nella coscienza sociale paradigmi reazionari di segno contrario rispetto ai valori costituzionali.

Il riferimento, da ultimo, va all’indagine condotta sul tema nell’ambito del 54° rapporto del CENSIS che rivela il dato del 43% di italiani favorevole alla reintroduzione della pena di morte, percentuale che sale al 44,7% se si considera solo la fascia di popolazione compresa tra i 18 e i 34 anni.

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[1] Neppi Modona G., voce Ordinamento penitenziario, in Dig. Pen., XIX, Utet, 1995.

[2] Fiandaca G., Musco E., Diritto penale. Parte generale, Zanichelli, 2006, p. 646.

[3] Bettiol G., Diritto penale. XV ed., Cedam, 1982, p. 75 ss.

[4] Romano M., Stella F., Teoria e prassi della prevenzione generale dei reati, Il Mulino, 1980.

[5] Fiandaca G., Musco E., cit., p. 646.

[6] La Scuola Classica vede tra le sue fila Carmignani, Pellegrino Rossi, Lucchini, Pessina.

[7] Esponenti della Scuola Positiva sono Lombroso, Ferri, Garofalo.

[8] Testo del nuovo Codice penale con la relazione del Guardasigilli (Rocco) / Ministero della Giustizia e degli Affari di culto, Tipografia delle Mantellate, 1930.

[9] Corte cost., sent. 22 luglio 2005, n. 299.

[10] Neppi Modona G., cit. p. 43.

[11] Sul significato e limiti dell’idea rieducativa si rinvia a Fiandaca G., Commento all’art. 27, comma 3° Cost., in Commentario alla Costituzione, a cura di Branca e Pizzorusso, 1991, p.222.

[12] Corte costituzionale, sent. 12 febbraio 1966, n.12, confermata da sent., 19 luglio 1968, n. 113.

[13] Così anche in Corte Costituzionale, sent. 21 maggio 1975, n.119; Corte Costituzionale, sent. 4 aprile 1985, n.102, Corte Costituzionale, sent. 25 maggio 1985, n.169 ; Corte Costituzionale, sent. 30 luglio 1984, n.237; Corte Costituzionale, sent. 30 gennaio 1985, n.23;   Corte Costituzionale, sent. 27 maggio 1982, n.104 e n. Corte Costituzionale, sent. 7 luglio 1980, n.107;   Corte Costituzionale, sent. 22 novembre 1974, n.264

[14] Corte Costituzionale, sent. 7 agosto 1993, n.306

[15] Corte Costituzionale, sent. 28 novembre 1972, n.168

[16] Corte Costituzionale, sent. 4 luglio 1974, n.204

[17] Corte Costituzionale, sent. 5 maggio 1983, n.126

[18] Corte Costituzionale, sent. 21 settembre 1983, n.274

[19] Corte Costituzionale, sent. 4 giugno 1997, n.161 e Corte Costituzionale, sent. 30 dicembre 1998, n.450

[20] Corte Costituzionale, sent. 17 luglio 1998, n.271

[21] Corte Costituzionale, sent. 28 aprile 1994, n.168

[22] Corte Costituzionale, sent. 25 maggio 1989, n.282; Corte Costituzionale, sent. 19 luglio 2005, n.296; Corte Costituzionale, sent. 4 luglio 2006, n.257

[23] Legge 4 agosto 1955, n. 848.

[24] Bricola F., a cura di, Il carcere riformato, Il Mulino, 1977; Neppi Modona G., Carcere e società civile. Una prospettiva storica, in www.dirittopenitenziarioecostituzione.it, 2014.

[25] Così Canepa G., Personalità e delinquenza, Giuffrè, 1974.

[26] Violi L., Il trattamento penitenziario, in Balducci-Macrillò, pp.684 e ss.

[27] Fiandaca G.-Musco E., cit., p. 673

[28] Padovani, La disintegrazione del sistema sanzionatorio e le prospettive di riforma: il problema della comminatoria editale, in Riv. It. Dr. Proc. Pen., 1992, p. 419.

[29] Sul tema si veda Anastasia S., Anselmi M., Falcinelli C., Populismo penale: una prospettiva italiana, II ed., Wolters Kluwer, 2020.

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