L’odissea di chi non dovrebbe stare in cella, ma in una Rems

di Benedetta Piola Caselli* Il Dubbio, 15 ottobre 2020

Quando Valerio Guerrieri si è impiccato, avevamo giurato che non sarebbe successo mai più che un paziente psichiatrico restasse a morire in carcere. Il ragazzo, poco più che ventenne, in cura da anni, aspettava il trasferimento in Rems – un trasferimento già ordinato, ma mai arrivato per la mancanza dei posti in struttura.

Aveva scritto su un biglietto: “non ce la faccio più, spero che un giorno ci rivedremo”. A chi la colpa? La sua vicenda pesa come un macigno, oggi più che mai, perché un caso analogo rischia di riproporsi. È un altro ragazzo, di qualche anno più vecchio, anche lui con malattia mentale importante, curata nel corso degli anni con alterni successi.

Ha commesso un reato grave; lo ha ammesso, se lo ricorda, non sa spiegare perché l’ha fatto. Anche lui è in attesa di un posto in Rems. Voglio raccontarvi di questo ragazzo e i problemi che stiamo incontrando, nonostante il procedimento sia gestito da magistrati sensibili e competenti: la dottoressa Liso e la dottoressa Fazi.

Per lui la malattia comincia con un trauma: il padre ammazza la madre a fucilate e poi cerca di togliersi la vita. Non ci riesce per l’intervento dei bambini. Finirà all’ergastolo. Non ci sono parenti prossimi che possano o vogliano soccorrere i piccini; interviene lo Stato, ma lo fa male: i fratelli vengono divisi e il nostro viene collocato in una grande struttura, dove viene dimenticato. D’altronde, in una situazione in cui è già difficile farsi vedere, lui non ha niente per essere notato: non è bello, non è intelligente, non è simpatico, non è intraprendente.

Per alcuni piccoli arrivano gli affidamenti familiari, le figure di riferimento, le coccole, gli incoraggiamenti; per lui non arriva niente. Anzi, mi devo correggere. A un certo punto della sua storia, quando ha undici o dodici anni, una famiglia chiede di lui. Gli operatori la sconsigliano: “ha qualcosa che non va”; ma loro insistono. È proprio lui, il bambino, che rifiuta. Vuole che al suo posto vada la sorella: “lei” dice “è più debole e ne ha più bisogno”.

Credo a questa storia per il modo in cui me l’ha raccontata. Ci credo anche per un’altra ragione, relativa ad un’altra vicenda, avvenuta molti anni dopo, quando ormai si trova in comunità psichiatrica. Una paziente si lancia dalla finestra e muore – un atto improvviso, inaspettato, perché sembrava ben compensata.

Nella confusione, un giovane operatore rimane accanto alla finestra, in completo stato di choc. Il ragazzo va lì, lo tocca leggermente per un braccio e – considerate che in quell’epoca non parlava mai gli dice: “la vuoi una sigaretta?”; poi, trascinandolo piano piano, lo allontana dalla finestra. Questa scena – il paziente che teme per l’operatore, che si immagina chissà? Che si voglia buttare anche lui, ma che comunque ne percepisce la fragilità e interviene – mi è sempre sembrata una delle più belle prove della meraviglia dell’animo umano.

Ancora oggi questo operatore è la figura di riferimento del ragazzo; l’unica persona che può avvicinarlo nei momenti di crisi; la figura parentale che non ha mai avuto. In comunità, il ragazzo era andato rifiorendo. Ben curato, indirizzato, aveva cominciato ad aiutare gli altri pazienti. Sembrava avere raggiunto un equilibrio duraturo. Poi il personale nella struttura è cambiato, e il ragazzo ha deciso di uscire e tentare una vita indipendente – d’altronde, in assenza di un provvedimento coercitivo, era normale che lo facesse.

Per un po’ la cosa è andata bene, anche se è stato un percorso faticoso e altalenante. Sotto farmaci e trattamento psichiatrico, riusciva a trovare lavoro e regolarizzare la sua situazione; nel momento in cui si sentiva bene e li abbandonava, arrivava il crollo e veniva risucchiato dalla strada. Nonostante tutto e grazie al cielo, è riuscito a mantenere nel tempo delle relazioni con le persone che ha incontrato sul suo percorso.

Ho in mente due scene. Una domenica a casa mia, dove era venuto per pranzo e si era presentato con una sorta di candeliere, dicendo tutto contento: “Ti ho portato un regalo! L’ho trovato nella spazzatura!”. Una notte d’inverno, tipo le 2.00 a.m., telefonata del suo operatore: lo andava a cercare sotto i ponti, perché lo credeva in preda a pensieri paranoici e aveva paura di atti autolesivi (aveva ragione).

La sua situazione mentale è andata progressivamente deteriorandosi. Non ha più preso i farmaci. Il lockdown ha dato il colpo di grazia. Giudicare il disagio mentale è molto difficile. Anche assumere un atteggiamento equilibrato, lo è: in assenza di posti in strutture adatte, diventa molto complicato bilanciare le esigenze di sicurezza della collettività con la tutela della fragilità.

I posti in Rems non ci sono: secondo Antigone, i detenuti incompatibili con il carcere che aspettano di essere trasferiti sono 13 solo a Regina Coeli. Il Dap, informalmente, prospetta un’attesa di oltre un anno. Che fare? Per il nostro ragazzo, le primissime settimane in carcere sono state positive, con una stabilizzazione dell’umore grazie alla corretta (e coatta) assunzione dei farmaci. Ma la situazione, che sembrava stabile, è improvvisamente peggiorata.

Pochi giorni fa, a colloquio con me – sono anche io una figura semi- parentale -, non parlava, rispondeva poco agli stimoli ed era giallo come un limone. A un certo punto si è piegato in due, ha detto che stava male, ha sbattuto la testa sul tavolo. Ho dovuto chiamare i soccorsi. Il suo operatore psichiatrico, autorizzato in urgenza da Gip e Pm, ha trovato una situazione molto compromessa e una regressione psicofisica importante.

È come se si fosse rotto un filo; un filo che lo teneva insieme. Siamo preoccupati: non vogliamo un secondo Valerio. In questa situazione, il carcere sembra fare ogni possibile difficoltà per impedire l’ingresso dell’operatore psichiatrico e dello psichiatra curante. Sono difficoltà che si risolvono solo dopo interminabili querelle, ed in genere basate sul nulla. Si perdono ore a cercare di capire quale è la procedura corretta per fare entrare dei supporti tecnici per un detenuto non formalmente in carico a nessuna Comunità: ogni volta viene cambiata, e non esistono regole chiare e pubbliche a cui fare riferimento.

Guardate, ad esempio, cosa è successo in questo caso: 8 luglio 2020: lo psichiatra curante si reca con autorizzazione d’urgenza del giudice a Regina Coeli. Non lo fanno entrare, serve l’appuntamento. Non importa che il giudice abbia sottolineato l’urgenza, dato il possibile pericolo di atti autolesivi: ci viene risposto “non mi interessa cosa dice il giudice”. La mia collaboratrice (che ho mandato per accompagnare lo psichiatra) non riesce a parlare né con un dirigente né con la Direzione.

9,10 luglio 2020: Dopo infinite lotte per prendere l’appuntamento (in media 1 ora per attendere che qualcuno risponda e 25 minuti e 3 persone diverse per capire se serve e se possono dare l’appuntamento), la mia collaboratrice finalmente riesce a fissare la visita.

13 luglio 2020: c’è l’appuntamento, c’è l’autorizzazione. Ma lo psichiatra non può entrare. Perché? Prima perché la polizia penitenziaria afferma di non aver ricevuto l’autorizzazione dalla cancelleria; poi – dimostrato l’invio e l’arrivo in matricola – perché la polizia penitenziaria ritiene che l’autorizzazione autografa del giudice, scritta a penna sulla richiesta e trasmessa dalla cancelleria, non sia valida: la cancelleria avrebbe dovuto trasmettere con atto separato, ridigitandolo. Ancora una volta non è possibile ottenere il nome della persona con cui si parla. Mi precipito a Regina Coeli lancia in resta. La situazione si risolve: lo psichiatra può entrare. Il ragazzo gli dice di farmi gli auguri: non ci pensavo più, ma è il giorno del mio compleanno. Lui, invece, non si scorda mai una data. Il giudice aveva disposto che entrasse anche l’operatore che è il vero e unico riferimento affettivo. Non lo fanno entrare: “uno basta”. Siamo troppo stanchi dopo 2 ore di battaglia, e lasciamo perdere.

4 agosto 2020: c’è l’autorizzazione del giudice. Serve l’appuntamento. Non lo vogliono dare, perché il numero è quello dei colloqui famiglia e dicono che l’operatore psichiatrico non è un familiare (ma anche a luglio era lo stesso, e lì l’avevano dato). La collaboratrice passa mezz’ora a chiamare tutti i vertici del carcere. Ottiene di poter prendere l’appuntamento, Lo chiede per il 10 agosto (data di disponibilità del professionista). Risposta: non abbiamo l’agenda per il 10 agosto, e non possiamo farla. Deve richiamare.

7 agosto 2020: non può prendere l’appuntamento, perché questo è il numero dei colloqui famiglia. Dove deve prenderlo? “Chiami l’ufficio magistrati” (!). Ovviamente non risponde nessuno.

8 agosto 2020: devo nuovamente correre a Regina Coeli, ormai pronta allo scontro fisico. Dopo il solito balletto della cancelliera che non ha mandato l’autorizzazione (e invece c’è) l’operatore entra: “non importa, non serve alcun appuntamento ma attenzione perché le regole cambieranno”. 5 ottobre 2020: la collaboratrice chiama al centralino principale di Regina Coeli, per chiedere SE ed eventualmente a CHI deve essere chiesto l’appuntamento.

Dopo 25 minuti per spiegare che l’operatore psichiatrico è esterno e che il giudice lo ha autorizzato in via d’urgenza per il deterioramento delle condizioni psicofisiche, viene risposto che l’appuntamento non serve più.

9 ottobre 2020: l’operatore psichiatrico non viene fatto entrare. La solita storia. Nuovamente, la situazione si sblocca quando mi precipito lì, pronta a fare denuncia e chiamare il Garante per i detenuti.

Non è colpa del carcere se i detenuti incompatibili restano lì, in attesa del posto in Rems. Ma è gravissimo il contesto in cui è gestita questa emergenza. Le negligenze amministrative, ripetute, insanate, insensate, sono veri e propri abusi che pagano i detenuti più deboli. L’avvocato, l’operatore, lo psichiatra, la praticante al massimo perdono tempo. Il detenuto perde la salute, la speranza, la fiducia nelle istituzioni. Tre cose possono essere fatte per tamponare l’emergenza:

1) È necessario che le direzioni delle carceri favoriscano i colloqui e gli scambi dei soggetti vulnerabili con il personale autorizzato dal giudice, rendendo pubbliche, chiare e certe le regole per i colloqui. È gravissimo che questo non sia fatto, specialmente alla luce del tasso di suicidi.

2) È necessario che le istituzioni individuino i centri alternativi per la custodia dei soggetti a rischio – ad esempio le comunità terapeutiche – per la collocazione provvisoria fino alla liberazione del posto in Rems.

3) E necessario che i giudici autorizzino la custodia presso le comunità, in attesa della collocazione in Rems, se ci sia possibilità di grave pregiudizio alla salute.

Queste cose impongono, certamente, uno sforzo di verifica, di organizzazione ed economico non indifferente: tuttavia, sono indispensabili per garantire la salute (e forse il recupero) dei detenuti con problemi psichiatrici.

*Avvocata

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