Le donne detenute

di Ilaria Boiano, Università di Roma Tre

Le donne costituiscono appena il 5 % della popolazione detenuta, dato rimasto ormai invariato da decenni in Italia, ma anche negli altri paesi europei.

Il Comitato CEDAW ha espresso preoccupazione per “la mancanza di dati disaggregati per sesso sul numero di donne in detenzione, compresa la detenzione preventiva e amministrativa, il grave sovraffollamento delle carceri dovuto all’elevato numero di persone in detenzione preventiva e la mancanza di accesso ai servizi sanitari e sociali di base” (2017, §49).

In Italia gli istituti penitenziari esclusivamente femminili sono solamente 5 (Trani, Pozzuoli, Roma Rebibbia, Empoli, Venezia Giudecca), mentre 52 sono i reparti femminili all’interno di penitenziari maschili.

Prima conseguenza della minore presenza femminile è una struttura e disciplina declinata sul maschile come norma di riferimento, con investimenti in risorse per il trattamento molto bassi, come da sempre denunciato in tutti gli ordinamenti in termini di problema strutturale e teorica della pena detentiva per le donne[1].

Sul punto si è espresso il CPT che nel documento Women in prison del 2018 ha sottolineato che le donne detenute sono esposte a un trattamento meno favorevole se comparato a quello riservato alla popolazione maschile e ciò è ricondotto al fatto che le regole e le strutture penitenziarie sono state sviluppate per una popolazione detenuta per la quale il detenuto uomo è considerato la norma.

Il fatto che le strutture di detenzione non rispondono ai bisogni specifici delle donne costituisce una discriminazione ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione per l’eliminazione di ogni discriminazione nei confronti delle donne (CEDAW).  Così, in linea con l’articolo 4 della Convenzione, il principio 5 (2) del Corpo dei principi per la protezione di tutte le persone sotto qualsiasi forma di detenzione o imprigionamento (risoluzione dell’Assemblea generale 43/173 del 9 dicembre 1988) afferma che le misure speciali progettate per affrontare le esigenze specifiche delle donne detenute non devono essere considerate discriminatorie. 

La necessità di un approccio sensibile al genere ai problemi affrontati dalle donne detenute è stata anche riaffermata dall’Assemblea Generale con l’adozione, nella sua risoluzione 65/229, delle Regole delle Nazioni Unite per il trattamento delle donne detenute e delle misure non detentive per le donne colpevoli (le Regole di Bangkok).

Il divieto di discriminazione in base al sesso costituisce, di conseguenza, il punto di partenza affinché l’esecuzione della pena possa essere conforme alle norme costituzionali e sovranazionali e realizzare in concreto, anche nei confronti delle donne, la finalità propria del trattamento penitenziario prevedendo misure specifiche di genere.

Si consideri che l’ordinamento penitenziario italiano, per quanto connotato per l’epoca di adozione da importanti innovazioni e punto di rottura con il sistema previgente, dedica disposizioni alle donne solo a partire dalla condizione della maternità in carcere, aspetto immediatamente criticato sin dalla sua elaborazione. Inoltre, non è stato affrontato sotto il profilo culturale e giuridico la necessità di superare il paradigma di cura e correzione che ha ispirato un sistema punitivo differenziato riservato alle donne nell’ambito della Scuola positiva, nella quale il reato, inteso non più come categoria giuridica ma come fatto umano, è visto come manifestazione dell’apparato bio-psicologico del delinquente ed espressione di una pericolosità innata o acquisita incolpevolmente. Tenuto conto delle specificità femminili, Lombroso suggeriva che «più che punire, basta nella maggior parte dei delitti delle donne, educare, far loro capire che esse hanno agito male» e storicamente le ipotesi punitive indicate per le donne si sono ispirate al modello della punizione “privata” riservata storicamente alla famiglia di appartenenza e funzionali alla cura e correzione.

Nel documento prodotto dal Tavolo 3 degli Stati generali sull’esecuzione penale coordinato da Tamar Pitch si pone come preliminare cambio di prospettiva in tema di trattamento penitenziario, da intendersi come processo risocializzante e responsabilizzante che soddisfa non i bisogni della personalità, ma della persona, titolare di diritti individuali.

Ciò si impone ancor di più nei confronti delle donne, cui non di rado è riservato un trattamento penitenziario non solo più “povero” quanto a risorse e programmi dedicati, come censurato anche dal Comitato CEDAW (2017, §§49-50), ma anche infantilizzante e non adeguato a rimuovere quegli ostacoli, come prescrive la costituzione, che determinano la discriminazione sulla base del sesso fuori e dentro il carcere.

Con riguardo alla vita in carcere, il trattamento penitenziario deve dispiegarsi nei confronti delle donne in programmi dedicati che superino stereotipi di genere anche con riguardo alle attività lavorativa cui sono avviate le detenute, per lo più lavori di cura interni alla struttura o comunque ritenuti più “appropriati”, promuovendo l’accesso all’istruzione, sin dall’alfabetizzazione, e alla formazione professionale. In concreto, nel documento finale il Tavolo 3 raccomanda anche comportamenti rispettosi della personalità delle detenute, in particolare indicando la necessità di un linguaggio “da adulti”, evitando di dare del “tu” alle detenute “dismettendo il linguaggio carcerario a favore della lingua comune”[2].

La vita in carcere deve essere organizzata, raccomanda poi il CPT, tenendo presente le peculiari esigenze legate al sesso e al genere, con riguardo agli spazi, soprattutto quelli destinati alla cura e all’igiene personale, dotando le strutture delle risorse necessarie per farvi adeguatamente fronte.

Il CPT al riguardo chiarisce che la prolungata non disponibilità di dispositivi utili all’igiene personale, per di più a fronte di specifiche esigenze determinate dal sesso, come il ciclo mestruale, costituiscono un trattamento degradante.

Le misure previste a tutela generale del diritto alla salute devono essere declinate in una prospettiva di genere, tenendo conto delle specifiche esigenze delle donne, del loro vissuto pregresso alla carcerazione, non di rado connotato anche dall’esposizione alla violenza di genere di cui alla Convenzione di Istanbul, e che richiederebbe la collaborazione con operatrici specializzate dei centri antiviolenza nel quadro di un trattamento penitenziario in concreto funzionale al reinserimento sociale in contesto libero dalla violenza.

Particolare attenzione merita poi la tutela della salute sessuale e riproduttiva, con accesso in parità a tutti i servizi e prestazione comprese dalla legge, ivi compresa la legge n. 194/1978.

Centrale è inoltre la tutela del diritto all’affettività e maternità: il Tavolo 3 degli stati generali dell’esecuzione penale denuncia come la compressione delle relazioni affettive e familiari per le donne private della libertà personale costituisca fattore di serio rischio anche per la salute psichica, oltre che violazione di un diritto soggettivo.

Le donne, oltre alla disciplina generale in tema di colloqui e permessi, sono destinatarie di specifiche disposizioni riguardanti la maternità: l’ordinamento penitenziario delineato dal legislatore del 1975 si occupava delle donne proprio per disciplinare la presenza dei figli minori insieme alle madri all’interno degli istituti di pena: l’art. 11 co. 8 e 9 ord. penit., prevede che in ogni istituto penitenziario per donne siano in funzione servizi speciali per l’assistenza sanitaria alle gestanti e alle puerpere, precisando che alle madri è consentito tenere i figli presso di sé sino all’età di tre anni, e aggiungendo che per la cura e l’assistenza dei bambini sono organizzati appositi asili nido.

Peraltro, in linea di continuità con quanto previsto dall’art. 11 ord. penit., si pone la disciplina contenuta nell’art. 18, d.p.r. 30-6-2000, n. 230. Il citato regolamento, infatti assicura assistenza particolare alle gestanti e alle madri con bambini; prevede, inoltre, l’organizzazione di appositi reparti ostetrici e asili nido; dispone, in aggiunta, che le camere dove sono ospitate le madri con i loro bambini non debbano essere chiuse, affinché questi ultimi possano spostarsi all’interno del reparto o della sezione, purché non turbino l’ordinato svolgimento della vita nei suddetti luoghi; riconosce, altresì, ai minori la possibilità di svolgere, con il consenso della madre, attività formative e ricreative fuori dal carcere; infine, qualora il minore debba essere separato dalla madre (ad esempio per aver superato il limite di età previsto dalla legge), garantisce il mantenimento dei contatti con la madre.

Rileva inoltre l’art. 39 ord. penit., rubricato «Sanzioni disciplinari» e inserito nel Capo IV, che nel regolare, appunto, le sanzioni disciplinari prevede che l’esecuzione della sanzione della esclusione dalle attività in comune sia sospesa nei confronti delle gestanti e delle puerpere sino a sei mesi, e nei confronti delle madri che allattano la prole fino ad un anno.

Preme sottolineare che le disposizioni esaminate, immutate dal 1975 sino ad oggi, sembrano prediligere la carcerazione degli infanti, almeno sino al compimento del terzo anno di età, ponendosi così in contrasto con la recente tendenza volta invece alla decarcerazione dei figli minori di un genitore detenuto, come ribadito anche dal Tavolo 3 degli stati generali sull’esecuzione penale e dal Comitato CEDAW (2017, §50 lett.d).

Nel 2011 è stata approvata la legge 21 aprile 2011 n. 62 che reca modifiche in materia di detenute madri, introducendo alcuni istituti rivolti a favorire il rapporto tra madre e figlio minore, nel corso del processo penale e durante l’esecuzione della pena, come case-famiglia protette e istituti di custodia attenuata.

La ratio complessiva della legge si coglie soprattutto nella volontà del legislatore di rafforzare il vigente quadro degli istituti processuali penali e penitenziari in materia di tutela del rapporto tra il minore e la madre, o il padre, se la madre è impossibilitata, che si trovi in stato di privazione della libertà personale, sia perché in custodia cautelare durante il processo, sia perché condannata in via definitiva ad una pena detentiva da scontarsi in istituto di pena.

Il quadro di questi istituti era abbastanza polverizzato, e la legge in questione resta settoriale e riguarda come prima, sia il codice di rito, sia le disposizioni della legge penitenziaria (la legge n. 354 del 1975), modificando singoli commi o inserendo altre norme coniate accanto a quelle esistenti.

In riferimento alle modifiche al codice di rito, l’articolo 1 della legge è rubricato “misure cautelari” e introduce tre modifiche al libro IV dello stesso.

L’articolo 1, comma 1 della legge modifica l’articolo 275, comma 4 del codice di procedura penale e reca il divieto di applicare la custodia cautelare in carcere, salve esigenze eccezionali, in una serie di situazioni ritenute incompatibili con il pesante regime carcerario che ne consegue, in particolare nei confronti di  “madre di prole di età inferiore a 6 anni con lei convivente”.

Restano invariati i riferimenti alle altre categorie (i padri, se la madre è impossibilitata, gli ultrasettantenni). Anche la filosofia della norma resta invariata, e cioè far prevalere le esigenze genitoriali e di educazione su quelle cautelari.

Portando da tre a sei anni il riferimento all’età della prole, si allunga sensibilmente il periodo di tempo durante il quale la madre (o il padre, se questa è impossibilitata) non dovrebbe, salve le sopra accennate esigenze eccezionali, essere destinataria della misura della custodia in carcere.

Il riferimento ai sei anni si deve, secondo i lavori parlamentari, al fatto che questa età coincide di solito con l’assunzione, da parte dei minori, dei primi obblighi di scolarizzazione.

Ammesso il divieto, anche se relativo, di custodia in carcere per le madri di prole sino a sei anni di età, il successivo art. 1, comma 2 della legge riguarda gli arresti domiciliari, dei quali all’articolo 284 del codice di procedura penale, misura cautelare di gravità immediatamente inferiore, alla quale si deve guardare in questi casi.

In particolare, per effetto della legge n. 62/2011 l’art. 284, comma 1 del codice di procedura penale, contenente l’elenco dei luoghi nei quali si può essere posti agli arresti domiciliari, menziona, oltre al luogo di abitazione, ai luoghi di privata dimora e ai luoghi pubblici di cura ed assistenza, anche la specifica figura della casa-famiglia protetta, se istituita.

Si introduce l’articolo 285 bis del codice di procedura penale, rubricato “custodia cautelare in istituto a custodia attenuata per detenute madri”: il giudice potrà disporre la custodia cautelare presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri, indicato con l’acronimo, di ICAM in caso di prole di età inferiore a sei anni. Le ICAM sono state disegnate con la finalità di assicurare un rapporto genitoriale il più vicino possibile alla normalità, avvalendosi di personale non in divisa e caratterizzandosi per l’assenza dei tradizionali riferimenti all’edilizia carceraria (ad esempio sbarre).

L’articolo 3, comma 1 della legge modifica le ipotesi di detenzione domiciliare cosiddetta per fini umanitari, delle quali all’articolo 47 ter, comma 1, lett. a) della legge n. 354/1975.

Il legislatore consente che la pena detentiva nei confronti di donna incinta, o di madre di prole di età

inferiore ai dieci anni con lei convivente, sia espiata in regime di detenzione domiciliare, oltre che nell’abitazione o in altro luogo di privata dimora oppure in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza, anche e specificamente in case-famiglia protette.

L’articolo 3, comma 2 della legge contiene modifiche alla cosiddetta detenzione domiciliare speciale

disciplinata dall’articolo 47quinquies della legge n. 354/1975 e riferita alle madri con prole non superiore ad anni dieci, applicabile anche nel caso di esecuzione di pene di lunga durata.

Attualmente, la norma afferma che la madre di prole di età inferiore ai dieci anni (anche in questo caso, il limite di età non è stato modificato) può essere ammessa al beneficio, al fine di ripristinare la convivenza con i figli, “dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena ovvero dopo l’espiazione di almeno quindici anni nel caso di condanna all’ergastolo” (ex art. 47-quinquies, comma 1 della legge n. 354/1975).

Si deve rilevare l’introduzione di un importante comma 1 bis, con il quale il legislatore ha voluto precisare in quali luoghi le detenute madri possono espiare il terzo della pena, o i quindici anni in caso di ergastolo, prodromici all’ammissione al beneficio:

1) in un ICAM;

2) in alternativa, ma esclusivamente se non vi sia pericolo di recidiva o di fuga, in abitazione o altro luogo di privata dimora oppure in luogo di cura, assistenza o accoglienza.

3) sempre che non vi sia pericolo di recidiva o di fuga, e se la madre non possa indicare dei luoghi privati, ai sensi del precedente punto 2), nei quali essere collocata (il pensiero corre subito alle madri straniere), si potrà ricorrere all’espiazione in casa-famiglia protetta, se istituita.

4) In riferimento alle madri condannate per uno dei cosiddetti reati ostativi, elencati all’articolo 4 bis della legge n. 354/1975, nessuna delle regole di favore appena riferite trova applicazione, con la conseguenza che o si ricorre ad altri benefici penitenziari, se applicabili, oppure la condannata sarà sottoposta ad esecuzione penale classica in istituto.

Foto di izhar khan da Pexels


[1] Pitch Tamar, Responsabilità limitate. Attori, conflitti, giustizia penale, Feltrinelli, 1989; Simone A., «LA PROSTITUTA NATA», Lombroso, la sociologia giuridico-penale e la produzione della devianza femminile, in Materiali per una storia della cultura giuridica, XLVII, n.2, dicembre 2017.

[2] Si rinvia alla relazione del Tavolo 3.

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