La storia di Nicola

di Giovanni Landi

«Voglio raccontare la mia storia. Spiegare come nasce un delinquente, come si scontano le pene in questo Paese e come, alla fine, si viene abbandonati a sé stessi».

Nicola Lovaglio ha quarantacinque anni, di cui quasi ventotto passati in carcere. Da due anni è un uomo libero, anche se ha chiuso i conti con la giustizia solo a febbraio 2021. La sua esistenza è un continuo peregrinare fra riformatori, istituti minorili, galere e centri psichiatrici. «Sono una prova vivente di come si viva “dentro”, e non voglio tenermelo per me. In tanti, troppi, non parlano, non raccontano certe verità: perché non le hanno passate, non le hanno sentite o hanno paura di subire ritorsioni».

Nel calendario della sua vita, le date cerchiate sono quelle dei reati, degli arresti, dei processi, dei provvedimenti giudiziari. E lui le ricorda tutte, le analizza e le incrocia come un attento biografo. Riesce a parlare per oltre un’ora senza mai perdere il filo di questo drammatico itinerario. Nelle sue parole, continuamente, il senso di colpa si alterna alla frustrazione per un sistema totalmente inefficace. «Ho sbagliato, certo, ma ho anche pagato tutto il doppio. Soprattutto, sono stato educato alla criminalità fin dalla culla, e quando era il momento di aiutarmi davvero, di tirarmi fuori da questa strada, non ho trovato nessuno».

Come nasce un delinquente

Nicola viene alla luce a Foggia, in Puglia, nel 1976. La sua famiglia fa parte di un clan della malavita locale. Un anno e mezzo dopo la sua nascita, i genitori decidono di spostarsi a Torino con alcuni amici, portando con loro il bimbo e la sorellina disabile. Lo scopo della trasferta è commettere rapine in una città ricca e promettente: le donne a casa con i figlioletti, gli uomini in giro a «lavorare». Ma il gioco finisce subito: «Nel gennaio del 1978, papà venne arrestato durante un assalto a un’industria di caffè e portato in carcere. Mamma si impossessò dei centocinquanta milioni di bottino e fece perdere le sue tracce. Lasciò mia sorella a casa dei genitori, mentre io fui abbandonato davanti al cancello di un orfanotrofio di Montecatini».

Poco dopo, il padre viene scarcerato per un breve periodo a causa di un vizio di forma; subito preleva il figlioletto per portalo a Foggia dai genitori.

Per volontà dei servizi sociali, il bimbo va a vivere in un collegio della zona. Ogni venerdì, puntuale, la nonna lo va a prendere e lo porta a trovare il padre in galera. Quando compie sei anni, Nicola viene ufficialmente affidato ai nonni, immergendosi in un ambiente di malavita e violenza. «Mio nonno era alcolizzato e picchiava di continuo mia nonna, che era praticamente sorda. I miei zii, tutti pugili, erano sempre aggressivi. Mi raddrizzavano a suon di botte». I Lovaglio vivono in Corso del Mezzoggiorno, nel centro di Foggia, in un palazzone totalmente dominato dal clan. Gli appartamenti non hanno la porta di ingresso, al massimo un lenzuolo o una copertura di cartone: in caso di retate, infatti, deve essere agevole correre da una casa all’altra, fino a raggiungere il cunicolo segreto che porta sulla strada opposta. «Mi inserirono subito nel contrabbando di sigarette. Facevo il “cavalluccio”, come si dice a Foggia: portavo la roba da un piano all’altro o in giro per il vicinato. E se commettevo il minimo errore, come percorrere una strada sbagliata, mi massacravano di botte».

Quando subisce il primo fermo ha appena sette anni: gli agenti lo bloccano per strada con in mano quattordici stecche di sigarette. «Raccontai che le avevo trovate vicino a un cassonetto dell’immondizia e nonna venne a prendermi in caserma. Le mazzate che mi diede mio zio me le ricordo ancora». Però era stato bravo, aveva mentito agli sbirri. Così viene promosso e assoldato per un impiego migliore: scaricare le sigarette dai camion e contare i pacchi. È l’estate del 1984 quando viene fermato di nuovo: il furgone era stato intercettato dalla polizia, tutti gli altri erano fuggiti e solo lui era rimasto a bordo. «Stavolta venne mio nonno a recuperarmi. Gli zii mi picchiarono dicendo che sarei dovuto scappare subito, ma gli altri mi avevano ordinato di rimanere lì. Non avevo nemmeno otto anni e mi rigiravano come volevano».

A quel punto, il piccolo viene ingaggiato per un mestiere ancora più importante. Ogni sera, alle 20, i parenti lo spediscono nella casa dei sorvegliati speciali con un grembiulino e un cestino. Passa facilmente inosservato, anzi sembra un tenero “cappuccetto rosso”. Ma dentro il canestro porta armi e pistole. In tempi di guerra fra clan, gli uomini si scambiavano le rivoltelle per dormire più sicuri. «Per me era tutto un gioco, mi regalavano cinquanta o cento lire e ci andavo a giocare. Però mi fermarono anche stavolta, la terza».

Nel frattempo, i famigliari devono ancora vendicarsi della madre, fuggita anni prima con quei centocinquanta milioni comuni. Nel clan hanno messo una taglia sul marito: o gliela fa pagare o la paga lui. «Non nascondo neanche questo episodio. È terribile, ma è ciò che è successo. Avevo dodici anni e un mio zio acquisito mi accompagnò da mia madre con un fucile in mano, chiedendomi di sparare. Io ubbidii, perché mi avevano convinto che altrimenti mio padre sarebbe morto. Una fucilata andò in aria, un’altra la sfiorò. Ma lei scelse di non accusarmi: “Lo so che ti hanno mandato loro”, mi disse». È il 1988 e per il dodicenne Nicola si aprono le porte della casa di correzione di Bari, il primo istituto della sua vita da recluso.

La scuola del crimine

«Il riformatorio non è una passeggiata di salute. È un luogo in cui ti mettono in testa la malavita e l’omertà. Ci sono gang opposte di tarantini, baresi, brindisini, andriesi, foggiani. Se ti levano un paio di scarpe e tu accetti, passi per lo scemo del gruppo. Io venivo da una famiglia di picchiatori e mi difendevo a cazzotti. Devi essere forte. Il riformatorio è la licenza media per fare il delinquente».

Nel 1990, dopo l’indulto, il ragazzino lascia Bari e si sposta a Roma, in collegio. Pochi mesi e scappa dalla struttura per trasferirsi dalla madre. Ogni quindici minuti un cliente suona al citofono e lui deve lasciare l’appartamento: la donna fa la prostituta.

Nicola inizia subito a frequentare le borgate romane e viene fermato più volte per rissa e oltraggio. «Chiamavano sempre mia madre per venirmi a recuperare in caserma, finché un giorno decise di lasciarmi lì. Mi abbandonò ancora una volta: ero di intralcio per il suo lavoro». L’escalation di delinquenza diventa inarrestabile. Fino alla maggiore età, Nicola entra ed esce di continuo dal carcere minorile di Casal del Marmo. Ogni volta che torna libero lo assegnano alla Caritas, ma lui scavalca il cancello e se ne va in moto per la città. Da minorenne viene arrestato tredici volte. «Avrò commesso una valanga di reati. Dopo la licenza media, nel carcere minorile si prende la laurea per stare sulla strada. Non c’era una persona che si rendesse davvero conto della mia condizione, impedendo che continuassi a delinquere. Nessuno mi ha mostrato il segnale dello stop».

Appena Nicola diventa maggiorenne, comincia a sperimentare il carcere dei grandi. Le porte girevoli continuano a funzionare e i periodi di libertà diventano sempre meno. Nel 1997, a ventuno anni, conosce una ragazza e diventa padre di un bambino. Pensa seriamente di cambiare vita, ma ormai la realtà è più forte di lui e la stabilità è un miraggio. Ruba automobili e dorme negli androni dei palazzi o nelle bische dei pregiudicati.

Intanto, viene processato per aver commesso un grave crimine e condannato in via definitiva dalla Cassazione. La giustizia adesso reclama il suo conto più salato. I giudici devono cumulare la pena con quella di altri due reati, di cui uno commesso da minorenne. Risultato: quarantatre anni di reclusione. «Solo gli avvocati mi hanno permesso di non marcire in prigione».

Gli anni da detenuto sono lunghi e difficili. Nel marzo del 2015, dopo un periodo di affidamento ad Ariano Irpino, dove è stato nuovamente rinchiuso per poi essere assolto, torna libero come invalido civile. Le forze dell’ordine, però, lo obbligano a lasciare quel luogo: la presenza di un pregiudicato di alto spessore viene ritenuta inopportuna per un paesino così piccolo. Di nuovo a Roma e senza un soldo, resiste sei mesi e mezzo e poi ci ricasca di nuovo, finendo nuovamente nel vortice: «Mio figlio lavorava in un bar ma non veniva pagato, così mi presentai lì e finì a botte. Dritto al carcere di Regina Coeli. Anche mio figlio fu messo dentro, ma solo per ritorsione verso di me. Infatti venne subito scarcerato, e a quel punto mi portarono a Civitavecchia per tenermi lontano da lui».

Dopo ulteriori e incessanti spostamenti, ad aprile 2017 viene condotto presso la fondazione Villa Maraini CAD. Privato degli psicofarmaci, esce dai cancelli aperti dell’edificio e si smarrisce. Telefona per ritornare nell’istituto, ma non viene più accettato. Quindi si reca al carcere di San Gimignano per costituirsi, iniziando gli ultimi mesi di detenzione.

«Alla fine, dal 1990 a oggi, ho scontato un totale di ventisette anni, undici mesi e ventotto giorni di reclusione. Di questi, diciassette sono stati continuativi. Se poi aggiungiamo il percorso nei centri infantili, il conto aumenta. La mia vita l’ho buttata nelle galere. In più, per un errore non mi hanno considerato i due anni di affidamento ad Ariano Irpino, costringendomi a ripeterli. Quindi ho pagato anche più del dovuto. Sto aspettando che la Cassazione me lo riconosca».

La verità sul carcere

«Descrivere il carcere? È impossibile. Per quanto mi riguarda, solo io so quello che ho passato. Schiaffi, cazzotti, facce spaccate, botte. E soprusi: purtroppo, spesso le guardie non sono professionali e non danno l’esempio. Si portano i problemi da casa. Non è giusto che si comportino male con persone che vivono il dramma della reclusione. I “Buongiorno” conditi da insulti, le mazze sbattute sulla cella, il potere della divisa che diventa esagerato».

Negli anni, Nicola matura un’ostilità verso l’istituzione che aggrava la sua posizione. «Sia da ragazzino che da adulto, ho subito angherie e torture anche all’interno delle questure: lo scopo era sempre quello, “farmi cantare”, spingermi a uscire dall’omertà».

Una volta si vede sparire un pacco postale inviatogli in cella dal figlio, e non riesce a controllarsi. «Distrussi il magazzino, ruppi un vetro blindato e aggredii la guardia, un giovane di ventidue anni che mi aveva zittito e mandato a quel paese. Mi toccò nella dignità, perché mio figlio lavorava e con amore metteva i soldi da parte per comprarmi i vestiti, e loro li avevano fatti sparire».

Ammette di averne «date e prese parecchie», ma anche di aver sempre vissuto in «ambienti di violenza, ignoranza e malvagità». «Ti portano ad esplodere. Purtroppo l’istigazione è un problema serio, soprattutto per chi deve scontare condanne molto lunghe. La violenza interna è deleteria. Così si esce solo più cattivi: si finisce per socializzare e solidarizzare con i criminali, incontrandosi poi fuori. In breve, si incrementa la criminalità. È un gioco in cui noi siamo lo scarto della società. E infatti, quando è l’ora, ci buttano fuori con in mano un sacco nero della spazzatura. Da parte mia, ho lottato sempre per far valere i diritti umani e la dignità all’interno del carcere».   

Neanche a dirlo, il sovraffollamento penitenziario rende tutto più difficile. «Tre persone in una cella singola, cinque in una tripla. Ammassati nei letti a castello e con un lavandino di venti centimetri per lavare denti, faccia, panni, e stoviglie. In un istituto eravamo seicento persone invece di trecento. Ma il problema è che i condannati definitivi erano un centinaio, molto meno della capienza massima. Gli altri erano in attesa di giudizio, il che dovrebbe far riflettere tutti». Nel corso degli anni, egli cerca più volte di far valere i diritti dei detenuti, ad esempio chiedendo colloqui con gli operatori. «Ricevevo sempre la stessa risposta: siete tanti e non vi possiamo seguire tutti. L’area sanitaria, poi, se ne fregava dei malati e non rispettava gli orari delle terapie. Io ero considerato troppo puntiglioso perché prendevo le parti dei compagni. Il risultato delle mie richieste? isolamento, botte e trasferimenti».

Mentre parla, Nicola sfoglia una cartella clinica ricolma di diagnosi psichiatriche. E ripercorre i problemi di salute con la stessa precisione con cui descrive il calendario della sua vita. «Quando sono entrato ero una persona sana di mente, anche se propensa a delinquere. Sono uscito distrutto: i medici hanno riscontrato in me depressione cronica, comportamento borderline, sindrome bipolare, schizofrenia persecutoria globale, etero-auto aggressività». E infatti nella sua carriera si contano innumerevoli ricoveri per TSO. «Un altro trauma. Legato a un letto per un 4-5 giorni di fila, con un caschetto in testa. Se mi calmavo mi liberavano una gamba, il giorno dopo un braccio. Se poi mi agitavo di nuovo tornavano a stringere i lacci».

Da detenuto, ha tentato il suicidio tre volte; le prime due per impiccagione, la terza, avvenuta nel 2007, assumendo un cocktail di eroina, cocaina, alcol e psicofarmaci. «Mi avevano dato per morto. Solo un miracolo mi ha salvato. Ma io ho perso il conto degli amici e degli conoscenti scomparsi dietro le sbarre. Sono arrivato a novantuno, poi ho smesso di contarli. Moltissimi per overdose e suicidio, guarda caso in isolamento. Per ridurre il rischio, in alcuni istituti non danno neanche più le lenzuola: solo una misera coperta di lana».

Il presente e il futuro

E quando si esce? L’altra metà del problema carcerario, secondo Nicola, è proprio la libertà. «È inutile prendere in giro la gente. Il reinserimento non esiste. In società si reinserisce uno su mille: chi ha la fortuna di avere i genitori o i fratelli che lavorano fuori dalle periferie, in zone lontane dalla delinquenza. La mia esperienza è questa: noi siamo la feccia utile a stipendiare un sistema. Il sospetto è che preferiscano farti delinquere per mantenere le persone “di dentro” e quelle “di fuori”: dentro ci sono educatori, capo area, psicologi, sanitari, direttori, commissari. Fuori forze dell’ordine, magistrati, avvocati. Io porto la mia storia, con molta umiltà. E dico che nonostante questo apparato mastodontico, non ho avuto un aiuto concreto da nessuno».

Questo, a suo avviso, valeva anche dentro, quando istitutori e medici lo vedevano pieno di ferite e si accontentavano delle bugie: «Sono caduto dalle scale!». Adesso gli psicologi lo chiamano al telefono: «E io posso dirgli anche “sto bene” mentre mi taglio con una lametta. Senza interazione serve davvero a poco».

Una volta fuori, è stato ugualmente difficile. Per quattro mesi ha mangiato hamburger comprati al discount. «Non lo nascondo perché non mi vergogno: la libertà non ha prezzo». Periodicamente deve recarsi al Centro igiene mentale e al Servizio tossicodipendenze per ritirare le terapie di psicofarmaci, massicce dosi giornaliere di morfina e benzodiazepine, senza contare i medicinali per le altre patologie al fegato e ai polmoni. Ma ora sei contento di essere liberò? «Non lo so. Perché comunque fuori la vita è dura. Ormai dentro stavo bene. È brutto dirlo. Ma ormai avevo il mio mondo e le mie regole».

Però adesso Nicola sta cercando la forza per ricominciare davvero. All’inizio il figlio lo ha aiutato con la casa, ma un grande supporto lo ha avuto anche dall’avvocato d’ufficio, poi nominata di fiducia, Silvia Pizzi: «Nella mia odissea ho conosciuto molti avvocati importanti: professori di diritto, cassazionisti, giuristi specializzati nelle associazioni a delinquere. Eppure, solo l’avvocato Silvia Pizzi, sebbene più “piccolo” degli altri, ha creduto davvero in me e nel mio cambiamento. Grazie a lei ho riconquistato una vita di civiltà e onestà, mi ha fatto conoscere le piccole cose del mondo civile. Con la sua professionalità e il suo buon cuore sta continuando a lottare per il mio effettivo reinserimento, insieme all’associazione Antigone».

Tuttavia, con la pensione di invalidità è realmente difficile tirare avanti e costruirsi una dimensione dignitosa. Nicola ha bisogno di un sostegno pubblico, di una mano tesa che continua a non vedere. «Io chiedo solo una casa popolare. Nulla di eclatante. Una casa popolare per vivere con dignità e campare con la mia pensione. Ormai, con i miei precedenti e la mia grave malattia mentale non mi prendono a lavorare. L’unica alternativa è tornare a delinquere, e io questo non voglio farlo. Non voglio essere per sempre un avanzo di galera. Voglio fare una vita regolare. I miei sbagli li ho fatti e li ho pagati. Ora non strappatemi di dosso la carne e la dignità».

Anche per questo, Nicola ha contattato il garante dei detenuti dell’Umbria e del Lazio, Stefano Anastasia: «Lo conosco da anni ed è il mio unico punto di riferimento. Lo vidi per la prima volta durante uno sciopero carcerario a Rebibbia, quando venne a sentire le nostre ragioni e portò anche il ministro della Giustizia. Gli ho scritto lettere da ogni dove e ha sempre dimostrato una grande sensibilità». Al Garante ha esposto anche un desiderio che alberga in lui da tempo: «Vorrei andare nelle scuole a raccontare la mia storia. Come si cade nella perdizione e come si fatica a uscirne. Voglio invitare i giovani a non sbagliare, a non perdersi. Lanciare un segnale verso chi sta per sbagliare, vuole sbagliare e sta sbagliando».

Le parole per il suo progetto, del resto, gli sgorgano automatiche. «Sembrerà strano, ma questa storia ormai la racconto facilmente, perché l’ho già raccontata centomila volte, tanto non gliene è fregato mai nulla a nessuno».

Dietro la volontà di comunicare la propria esperienza, allora, c’è insieme una richiesta di aiuto e il bisogno di essere finalmente utile agli altri. Di ricoprire un posto positivo nella società. «Posso assicurare che portare un bagaglio del genere sulle spalle non è facile. Per questo vorrei che si ragioni di più sui perché delle cose. Perché si resta prigionieri di uno stile di vita, perché si commettono determinati reati, perché è così difficile trovare la strada per uscirne. La vita non può restituirmela nessuno, ma forse la strada buona qualcuno può indicarmela. E io, questo è sicuro, ce la metterò tutta per percorrerla».

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