di Luigi Manconi, La Repubblica, 16 aprile 2021
Il verdetto della Consulta sull’ergastolo ostativo. Il cuore dell’ordinanza emessa dalla Corte Costituzionale a proposito dell’ergastolo ostativo risiede nelle seguenti affermazioni: la norma in questione è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione italiana e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani. Ciò perché l’attuale disciplina, fa della collaborazione con la magistratura l’unico modo per il condannato di ottenere la liberazione condizionale, “anche quando il suo ravvedimento risulti sicuro”.
Dunque, per la Consulta il regime di ergastolo ostativo, confligge corda lettera e con lo spirito della Costituzione. Tuttavia, rinvia la decisione ultima – da cui discende la dichiarazione definitiva di incostituzionalità, con conseguente inapplicabilità – a un momento successivo (maggio 2022). E questo per consentire al Parlamento di intervenire sulla materia, prima che si pronunci la Corte. La scelta del rinvio è analoga a quella assunta relativamente al tema dell’aiuto al suicidio e a quello della diffamazione.
È un metodo adottato nei casi in cui l’intervento della Consulta rischia di sfiorare l’ambito proprio della discrezionalità politica. L’ordinanza prospetta un itinerario equilibrato, raccomandando al legislatore di tenere conto sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata, sia della necessità di confermare l’utilità della collaborazione con la giustizia.
Una simile prudenza della Consulta, che lascia molti insoddisfatti, si spiega non solo con la grande delicatezza del tema, ma anche con l’ostilità che la probabile dichiarazione di incostituzionalità già aveva suscitato: in qualche caso, con argomenti seri e meditati, assai più spesso, con motivazioni pretestuose e, talvolta, schiettamente strumentali.
Ma chi coltiva un’idea garanti sta e liberal-democratica del diritto e del sistema delle pene non può che leggere con soddisfazione quelle parole inequivocabili: l’ergastolo ostativo è in contrasto con norme fondamentali della Costituzione. Una delle ragioni dell’importanza di questa pronuncia, consiste nel fatto che è assai diffusa un’opinione così riassumibile: “In Italia, in realtà, nessuno sconta davvero la sua pena fino in fondo”.
Si tratta di una delle tante, anche inconsapevoli, manifestazioni di ferocia quotidiana. Come altre espressioni del più pigro senso comune, anche questa è falsa. Ecco i dati: al primo settembre del 2020, nel sistema penitenziario italiano, si trovavano recluse 1800 persone condannate al carcere a vita e, tra esse, 1271 a quella pena che, appunto, prende il nome di ergastolo ostativo. Quest’ultimo non ammette la liberazione condizionale dopo 26 anni di detenzione e quel “ravvedimento” di cui parla l’ordinanza della Consulta.
Ne consegue una condanna al carcere perpetuo: ovvero al “fine pena mai”. In altre e forbite parole, perinde ac cadaver (l’espressione è di Sant’Ignazio di Loyola). Si consideri che, negli ultimi quindici anni, il numero dei condannati all’ergastolo è cresciuto costantemente; e che l’incremento è dovuto principalmente all’aumento del numero di quelli ostativi. Eppure, la nostra Costituzione legittima la pena in quanto tenda alla “rieducazione”.
E questo termine – proprio della cultura e del linguaggio dei costituenti degli anni Quaranta – si riferisce alla possibilità del condannato di emanciparsi dal proprio crimine e di “ritornare” all’interno della comunità civile. All’opposto, una pena infinita, senza tempo e senza scampo, quale appunto l’ergastolo, non può che essere incompatibile con la finalità di inserimento sociale della pena. Per questo la Consulta con una sentenza de11974 ha ritenuto ammissibile la reclusione perpetua solo in quanto non sia effettivamente tale, ma ammetta almeno una possibilità, con la liberazione condizionale, di ritorno all’interno del sistema delle relazioni sociali.
E, invece, per gli ergastolani condannati per reati “ostativi” e non collaboranti è precluso quel diritto alla speranza spesso richiamato dalla Corte europea dei diritti umani. Il tema riguarda un punto nevralgico del nostro ordinamento: il rapporto tra pena e speranza. E chiama in causa quell'”incomprimibile possibilità di recupero” in cui – secondo le parole del cardinale Carlo Maria Martini – si esprime la dignità umana.
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