La rieducazione funziona, lo dimostrano i detenuti che lavorano durante la pena

di Erika Antonelli, linkiesta.it, 1 giugno 2021

Molti carcerati imparano un mestiere nei penitenziari, preparandosi al reinserimento in società. I numeri sono ancora troppo bassi, ma negli ultimi anni imprese e cooperative stanno svolgendo un ruolo importante. Dice: “Il magistrato ha capito che in Brasile avevo una vita brava”. Una condanna iniziale di oltre nove anni, poi scesi a quattro, poi trasformati in sedici mesi di carcere “che mi sono sembrati infiniti”. Notti e giorni tutti uguali, la monotonia spezzata imparando l’italiano con la Bibbia in una mano e il dizionario di portoghese nell’altra. Rodrigo viene arrestato in aeroporto il 27 luglio del 2017 perché ha nascosto quattro chili di cocaina nell’imbottitura di una coperta. Poi l’ha infilata in una delle due valigie che si porta dietro e dal Brasile ha preso un aereo in direzione Roma. Ancora non lo sa, ma da quel giorno la vita gli è cambiata in meglio.

Fa caldo, tanto caldo, eppure ai controlli di frontiera il bagaglio fuori stagione non dà nell’occhio. Appena fuori Rodrigo prende una boccata d’aria e chiede indicazioni a un signore che fuma una sigaretta. Non spiccica una parola d’italiano, prima di pronunciarle scrive le frasi su Google traduttore. “Vieni, ti faccio vedere dove prendere il taxi”, gli dice l’uomo. Mica è vero, lo riporta ai controlli. È un finanziere in borghese e questa volta gli fa aprire la valigia. Fuori la coperta, ecco nell’imbottitura la droga che Rodrigo si è prestato a trasportare in cambio di denaro. Viene arrestato, per la vergogna aspetta un mese prima di dirlo alla famiglia.

Quattro anni dopo ne parla con tranquillità rigirando tra le dita una Chesterfield blu. È seduto al tavolino del pub dove lavora dal 24 marzo. Un riconoscimento alla sua vita brava, come la definisce lui, cioè onesta “prima di quell’unica cazzata”. Terminata la permanenza in carcere conosce Oscar La Rosa, fondatore di Economia Carceraria e proprietario del pub Vale la Pena. Un nome, un programma, Oscar nella sua birreria raccoglie e vende (al dettaglio e tramite e-commerce) prodotti realizzati dai detenuti e li usa anche per preparare i suoi aperitivi.

Pasta, vino, birra e creme spalmabili creati all’interno dei laboratori presenti negli istituti penitenziari grazie alle cooperative sociali. Con il permesso del magistrato Rodrigo, ora agli arresti domiciliari, può stare fuori casa dalle sei di mattina alle 21:00 per ragioni lavorative. Confeziona i pacchi per le spedizioni, pulisce il locale e fa un’ora di servizio al tavolo. Quando sono le 19:00 stacca per tornare a casa, ché anche un minuto di ritardo in caso di un controllo può essergli fatale. E a fare la seconda cazzata non ci pensa proprio.

Quando gli chiedi perché vende alimenti fatti in carcere Oscar non ha dubbi: “Sono buoni e ti fanno risparmiare”. Costruire maggiori opportunità lavorative, secondo lui, abbatterebbe la recidiva e contribuirebbe a creare una società più sicura. Se il detenuto guadagna e mette da parte i suoi risparmi, una volta fuori non sarà tentato dal profitto facile.

Uno studio del 2007 gli dà ragione, il tasso di recidiva nel caso di persone che scontano la loro pena dietro le sbarre sfiora il 70 per cento. Eppure, il lavoro negli istituti penitenziari è ancora aperto a pochi. A fronte di oltre 53mila detenuti, lavorano solo in 17.937 (il dato è di dicembre 2020). Un numero da ripartire tra quelli che sono alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria (15.746) e gli impiegati presso imprese, cooperative o datori di lavoro esterni (2.191).

I primi sono principalmente attivi nei “servizi d’istituto” e in gergo ogni mansione ha il suo soprannome: lo “spesino” compra e distribuisce i prodotti, chi pulisce si chiama “scopino”, il “piantone” assiste i detenuti malati. Mentre in cooperative o aziende vigono, come dice Oscar, le “regole del mondo libero”: un contratto e uno stipendio dignitoso (circa 1000 euro).

Perché abbia senso, il lavoro deve continuare anche nel mondo libero. Ne è convinta Nadia Lodato, una delle responsabili del Progetto Cotti in Fragranza, che dal 2016 produce biscotti nell’Istituto Penale Minorile Malaspina di Palermo: “La parte più difficile è la gestione della libertà fuori, perché spesso i ragazzi tornano nell’ambiente in cui hanno trovato il crimine”.

Per abbattere la recidiva, oltre al biscottificio interno la cooperativa Rigenerazioni Onlus ha aperto un bistrot in cui al momento lavorano due ex detenuti, uno come aiuto cuoco e l’altro nel settore logistico. Nel laboratorio del Malaspina sono impiegati giovani tra i 18 e i 21 anni e sfornano frollini agli agrumi, biscotti vegani, snack salati e cioccolato con sale marino siciliano. Sfruttano materie prime locali e le lavorano in modo artigianale.

Secondo Lucia Lauro, l’altra responsabile del progetto, “I ragazzi imparano il valore della cura e ricuciono lo strappo che hanno con la società”. L’idea di fondo è costruire “un’intelligenza collettiva” e diffondere una narrazione alternativa allo stigma sociale imposto dalla permanenza in carcere. La prima linea di biscotti si chiamava Buonicuore, come a dire, spiegano: “Siamo altro dal reato commesso”.

La scelta delle parole conta anche per la cooperativa L’Arcolaio, inserita nella Casa Circondariale di Siracusa. Il nome, dice il direttore Giuseppe Pisano, si ispira alla filosofia di Gandhi, per cui lo strumento era simbolo di libertà e riscoperta della tradizione. Vengono utilizzate materie prime siciliane e, in caso non fosse possibile, si acquistano da botteghe equosolidali.

L’Arcolaio produce dolci, la maggior parte a base di mandorla, e sciroppo di carrube (un frutto dolce tipico delle regioni meridionali). Nel laboratorio sono occupati otto detenuti. Il reinserimento sociale prosegue poi nel mondo di fuori, dove persone appartenenti a categorie svantaggiate si prendono cura di alcuni terreni sui Monti Iblei e raccolgono le erbe aromatiche.

Il valore aggiunto dei prodotti è il tempo, racconta Pisano: “Spesso le ore in carcere sono quelle dell’ozio, dell’attesa pigra del fine pena. Avere un’occupazione le trasforma in un momento di riscatto personale, utile a costruire la propria identità di lavoratore e cittadino”.

Identità che, se sei donna, passa anche dal ricucire le fila del rapporto con i propri figli. Lo sa bene Luciana Delle Donne, ex dirigente di banca da anni impegnata nel sociale. Ha ideato il marchio Made in Carcere e aperto cinque laboratori negli istituti di Lecce, Trani, Taranto, Bari e Matera. Nei primi tre sono impiegate detenute. Imparano a cucire riutilizzando i tessuti donati dalle aziende e creano borse, braccialetti e accessori.

Nell’istituto minorile di Bari si producono biscotti (Le Scappatelle), mentre a Matera i detenuti apprendono come lavorare la pelle. Il lavoro è il mezzo con cui Luciana insegna la creatività ed educa i dipendenti al bello, un concetto non scontato in un posto fatto di ambienti tutti uguali. “Per questo i nostri laboratori si chiamano maison, dice lei, e ci piace arredarli con tappeti, mobili d’epoca e divanetti”. Deve sembrare casa, non luogo di detenzione.

Il reinserimento sociale di un detenuto è un percorso a ostacoli e le cooperative ne sono consapevoli. Pensano che gli errori si possano leggere in due modi, sconfitte o opportunità, e credendo nelle seconde cercano di insegnare ai detenuti il lento esercizio della speranza. Rodrigo, per esempio, ci è riuscito e appena sarà del tutto libero vorrà dedicarsi a progetti di inclusione nelle carceri brasiliane. E se è vero che quando programmi qualcosa è perché in fondo ci credi ancora, allora quel 27 luglio il finanziere davvero gliel’ha cambiata in meglio la vita.

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