Relazione annuale al Parlamento del Garante Nazionale dei Diritti delle Persone Private della Libertà Personale

Appartenenza, assolutezza del diritto alla tutela della dignità di ogni persona, diritto costituzionale alla finalità rieducativa delle misure restrittive  alla base della direzione del cammino da percorrere

Il 21 giugno il Collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ha presentato alla Camera dei Deputati la Relazione al Parlamento 2021.

La presentazione della Relazione al Parlamento si è tenuta con un numero molto ristretto di presenze istituzionali per ragioni di prevenzione sanitaria. Tra queste, il Presidente della Camera dei Deputati, Roberto Fico, le Ministre della Giustizia e dell’Interno, Marta Cartabia e Luciana Lamorgese, il rappresentante della Presidenza del Senato, Senatore Francesco Maria Giro e il Giudice costituzionale Francesco Viganò in rappresentanza della Corte.

Nel suo intervento, il Presidente Mauro Palma ha riassunto i punti principali delle più di 400 pagine della Relazione consegnata ai Presidenti delle Camere, affrontando i diversi ambiti di intervento del Garante nazionale: dalla detenzione penale a quella amministrativa delle persone migranti, dalla privazione della libertà in ambito sanitario alla custodia nei luoghi delle Forze di Polizia, fino ad arrivare alla possibile perdita di autodeterminazione di persone anziane o disabili ospiti in residenze sanitarie assistenziali.

La presentazione del rapporto prende avvio  dalla domanda principale con la quale aveva chiuso lo scorso anno la sua relazione nella quale si era voluto sottolineare la gravità e l’irruenza di una situazione imprevedibile che, oltre a colpire la collettività nelle sue abitudini quotidiane e determinare un senso di diffusa ansia, colpiva in modo determinante i luoghi di restrizione della libertà aggiungendo a quell’ansia che accomunava tutti noi, l’angoscia di essere in un luogo chiuso dove anche le minime misure di prevenzione non potevano, per una serie di fattori, trovare compiuta applicazione. Il presidente Palma si era chiesto quale avrebbe potuto essere la ripresa una volta terminata la fase dell’improvvisa distruzione. Perché era già chiaro che non sarebbe stato possibile tentare di riprendere il precedente ordine – quasi che nulla fosse avvenuto – e mi interrogavo su quali modelli ricostruttivi, proprio per tali luoghi, si potessero affermare.

Per il Garante nazionale le linee della direzione si sintetizzano in tre riconoscimenti fondamentali.

 Il primo riconoscimento è riassumibile, appunto, proprio nella parola appartenenza. Il mondo dei luoghi della privazione della libertà non è luogo ‘altro’: ci appartiene e quei muri e quei cancelli indicano soltanto una separazione temporale dovuta a esigenze di tipo diverso, che possono aver determinato la restrizione della libertà. Mai devono costituire una separazione sociale e concettuale e diminuire il riconoscimento della specifica vulnerabilità che li abita.

Il secondo riconoscimento riguarda l’assolutezza del diritto alla tutela della dignità di ogni persona, quantunque ristretta, e della sua intangibilità fisica e psichica. Anche sotto questo profilo, non diminuisce tale assolutezza la causa che ha determinato la necessaria restrizione, sia essa per ciò che si è commesso, per la propria irregolare presenza nel territorio nazionale, o per la propria fragilità dovuta all’età o ad altre soggettive situazioni. E su questo più volte il Garante nazionale è intervenuto anche nell’ultimo anno, intervenendo nel dibattito culturale e inviando messaggi al mondo politico.

Il terzo riconoscimento è il diritto all’effettività della finalizzazione dichiarata e legislativamente affermata della misura a cui si è sottoposti. Nell’ambito dell’esecuzione penale, la finalità tendenzialmente rieducativa di ogni sanzione penale è spesso oggetto di affermazioni e dichiarazioni d’intenti. La sua coniugazione è però maggiormente caratterizzata dalla volontà di indirizzare le politiche penali piuttosto che dal riconoscerla come diritto della persona privata della libertà personale.

L’avere nella nostra Carta una indicazione esplicita di orientamento finalistico delle pene determina, infatti, in particolare per la pena privativa della libertà, il diritto a che il tempo dell’esecuzione non sia mera sottrazione di tempo vitale con carattere deterrente o retributivo, o ancor meno tempo ‘vuoto’, ma tempo da spendere in un concreto indirizzo verso tale finalità. In questo passaggio si evidenzia il fatto che non si tratti più di una indicazione di politiche penali, ma dell’affermazione di un diritto – forse l’unico diritto uti captivus.

Questa affermazione è estendibile anche alle altre forme di privazione della libertà verso cui il Garante nazionale deve volgere il proprio sguardo di monitoraggio e vigilanza.

La persona privata della libertà in un Centro per i migranti in funzione della propria espulsione dal territorio nazionale, ha il diritto a che tale privazione sia giustificata da una percorribile ipotesi di rimpatrio: ciò rende illegittima la restrizione della libertà quando non ci siano accordi con il Paese di destinazione che rendano questa ipotesi concretamente realizzabile, così come l’ha resa a rischio d’illegittimità nei periodi recenti di interruzione di voli verso Paesi terzi.

Analogamente la persona ospitata in un Servizio psichiatrico di diagnosi e cura – la quale è spesso di fatto privata della libertà – ha diritto a vedere inserita questa sua peculiare situazione nel contesto di un piano trattamentale che sia effettivamente orientato al massimo recupero dell’autodeterminazione.

Con tali direzioni dello sguardo, il Garante nazionale si rivolge verso l’auspicabile ripresa, cercando di leggere quella linea rosea che Friedrich pone sull’orizzonte. Ben sapendo che quanto appreso in questo periodo deve dare indicazioni perché non si torni al nebbioso panorama precedente.

Nascono qui alcune indicazioni riportate nella sezione della Relazione denominata, appunto, Orizzonti.

Le proposte specifiche si muovono a partire da alcune premesse. La prima riguarda il recupero di un concetto anche ingenuo di proporzione, tra ciò che si vuole contrastare o, in altri casi, proporre, e le misure messe in campo per il suo perseguimento.

Nessun recupero, sia chiaro, soprattutto in ambito penale, di un concetto di proporzionalità che evoca aspetti retributivi e che traspare oggi in molte affermazioni, purtroppo in qualche caso anche di chi ha responsabilità pubblica, che vede nell’idea della meritevolezza del castigo

Così come nessuna declinazione della proporzionalità in termini di insicurezza suppostamente percepita dalla collettività e mai orientata e interpretata, che vorrebbe rendere non visibile ogni conflittualità che pure esiste in qualsiasi società complessa. Piuttosto una proporzionalità intesa nel suo significato di adeguatezza.

Un parametro, questo, la cui misura si fonda sulla necessaria pluralità delle direzioni dell’azione dello Stato: verso la collettività che deve sentirsi sicura, verso chi ha sbagliato perché non torni a sbagliare ma che non cessi di essere considerato come appartenente alla stessa collettività, verso chi presenta una difficoltà relazionale, ma che deve essere accettato non come oggetto di controllo, bensì come soggetto da orientare per una sua relazionalità possibile.

Alcuni esempi dell’anno trascorso ci indicano che molto occorre fare per diminuire la sproporzione tra quanto teoricamente perseguito e l’azione messa in campo. Non posso tacere la drammaticità e la responsabilità di tutti noi relativamente al suicidio recente di un giovane straniero irregolare che, oggetto di violenta aggressione per strada, avvenuta forse proprio a causa della sua specifica fragilità.

Le parole delle norme

Come negli anni precedenti, anche la Relazione al Parlamento di quest’anno, presenta oltre ai dati significativi per una fotografia delle diverse aree di privazione della libertà, una linea di riflessioni attorno a un tema. Quest’anno il tema è quello delle parole delle norme.

Sono poi i legami logici e linguistici tra le parole a costituire un sistema, a partire da principi che, come in un sistema assiomatico, sono anch’essi delle costruzioni linguistiche non ambigue.

Proprio per questo il linguaggio delle norme è importante. Non perché non preveda il fondamentale ruolo dell’interpretazione. L’interpretazione giuridica costituisce sempre il carattere evolutivo di un sistema normativo, finendo a volte col modificare anche il significato originario di un testo legislativo. Ma l’interpretazione ha la forza di completamento fattuale del linguaggio di una norma non quello della sostituzione delle lacune linguistiche con cui essa è formulata. Interpretare non è sanare l’inconsistenza linguistica, bensì consolidare la sua potenzialità generativa.

Dalle parole ai numeri

Con questa premessa vengono riportati nella Relazione molti dati delle diverse aree di privazione della libertà personale che indicano gli elementi di criticità e quelli di positività riscontrati nell’ultimo anno.

Tutte le diverse aree di privazione della libertà personale hanno vissuto una sofferenza specifica nell’ultimo anno.

Tuttavia, proprio da tale specifica e dirompente difficoltà è possibile trarre un elemento positivo che deve essere ben considerato nel delineare l’orizzonte di ripresa. L’elemento positivo è costituito dal fatto che alcune latenti contraddizioni spesso poco evidenti sono divenute chiare, visibili: non si potrà dire di non esserne consapevoli e non si potrà parlare di ricostruzione senza considerarle adeguatamente.

Non potremo dire di non sapere quale sia la consistenza numerica delle persone senza fissa dimora – quelle per le quali il messaggio condiviso del ‘restare in casa’ era privo di significato – e la consistenza di tale numero nel contesto della detenzione. Così come non potremo ignorare la separatezza che frequentemente avvolge le strutture residenziali per anziani o disabili e che era normalmente attenuata dal lavoro ‘supplente’ delle famiglie o anche non portare a valore il contributo del mondo del volontariato all’interno di queste istituzioni chiuse nel momento in cui la non presenza di tali figure all’interno di quegli spazi e quei corridoi ha prodotto un vuoto che nei casi di sostegno alle disabilità rischia di determinare una regressione cognitiva importante: dovremo capire come portare a sistema questi apporti e come recuperare un concetto di ‘sussidiarietà’ che non sconfini nella delega e nella deresponsabilizzazione di chi istituzionalmente deve assicurare interventi densi di umanità e capacità. Soprattutto omogenei nelle diverse aree del territorio nazionale: i dati stessi che vengono riportati nella Relazione dimostrano la disuguaglianza nella distribuzione di assistenza e supporto.

Nell’area penale, va innanzitutto registrata positivamente la riduzione numerica delle presenze negli Istituti per adulti. Il 2020 era iniziato con 60.971 presenze, mentre l’anno in corso è iniziato con 53.329. La decrescita ovviamente è dipesa dai minori ingressi dalla libertà nel periodo di chiusura sociale per il rischio di contagio e dal maggiore ricorso alla detenzione domiciliare: questa principalmente dovuta a una più direzionata attività della Magistratura di sorveglianza, piuttosto che all’efficacia dei timidi provvedimenti governativi adottati. Colpisce la pur limitata ripresa della crescita dei numeri negli ultimi mesi che determina l’attuale registrazione di 53.661 persone e che, commisurata alla capienza effettiva di posti disponibili, limitata a 47.445 (anche se formalmente attestata a 50.781 posti regolamentari) indica la necessità di interventi che riducano la pressione che tali numeri determinano. Due aspetti vanno considerati: innanzitutto la presenza di più di un terzo di persone detenute che hanno una previsione di rimanere in carcere per meno di tre anni

Ben 1.212 sono quelle che sono state condannate a una pena inferiore a un anno.

La distribuzione, sulla base della pena inflitta, degli attuali 37.030 condannati presenti in carcere è la seguente:

  • 1.212 per una pena da 0 a 1 anno
  • 2.149 per una pena da 1 a 2 anni
  • per una pena da 2 a 3 anni
  • 8.177 per una pena da 3 a 5 anni
  • 10.959 per una pena da 5 a 10 anni
  • 6.516 per una pena da 10 a 20 anni
  • 2.458 per una pena oltre 20 anni
  • 1.801 per la pena dell’ergastolo

La distribuzione, sulla base della pena residua, sempre degli attuali 37.030 condannati presenti in carcere è la seguente:

  • 6.917 per un residuo di pena da 0 a 1 anno
  • 6.705 per un residuo di pena da 1 a 2 anni
  • 5.608 per un residuo di pena da 2 a 3 anni
  • 7.210 per un residuo di pena da 3 a 5 anni
  • 5.944 per un residuo di pena da 5 a 10 anni
  • 2.410 per un residuo di pena da 10 a 20 anni
  • 434 per un residuo di pena oltre 20 anni
  • 1.801 per la pena dell’ergastolo

Tali numeri danno una immagine plastica della fragilità sociale che connota gran parte della popolazione detenuta, perché indica coloro che non accedono a misure che il nostro ordinamento prevede, spesso anche perché privi di fissa dimora. Non solo, ma rendono soltanto enunciativa la finalità tendenziale alla rieducazione perché nessun progetto può essere attuato per periodi così brevi e spesso il tempo della detenzione diviene così soltanto tempo di vita sottratto, peraltro destinato a ripetersi sequenzialmente.

Molto dibattito si è sviluppato recentemente e lo sarà nei prossimi mesi in relazione alle modalità di accesso alla liberazione condizionale, soprattutto per coloro che scontano la pena dell’ergastolo: è tema che la Relazione affronta e a cui ho già fatto cenno. Bisogna  ricordare che a fronte delle attuali 1.801 persone che scontano la pena dell’ergastolo – di cui 1.259 in situazione cosiddetta ‘ostativa’ – coloro che nell’ultimo triennio hanno avuto accesso alla liberazione condizionale sono stati complessivamente cinque, nessuno nei primi sei mesi di quest’anno. La dimensione numerica spesso aiuta a capire l’ampiezza dei temi di cui molto si dibatte.

Viene poi ribadita e sottolineate la rilevanza del numero dei suicidi, accentuato anche nel periodo di difficoltà soggettiva che ha caratterizzato gli scorsi mesi: il tasso dei suicidi ha toccato nel 2020 l’1,11 per mille (62 in totale) delle presenze medie, mentre nel 2019 era stato lo 0,91 (55 in totale). A questi è doveroso aggiungere il numero di suicidi nel personale di Polizia penitenziaria: sei nell’ultimo anno.

Non è possibile considerare le criticità del mondo detentivo senza considerare le difficoltà che oggi affrontano coloro che sono in più diretto contatto con le persone ristrette. A tutti gli operatori penitenziari, va il riconoscimento del Garante nazionale, ma in particolare a coloro che direttamente hanno garantito la continuità della presenza istituzionale nel periodo delle chiusure esterne.

Complessivamente, il sistema penitenziario ha retto all’impatto del contagio, rispetto al rischio potenziale di un ambiente chiuso, anche a causa del numero molto basso di persone che hanno manifestato sintomi. Ha, comunque, visto 15 decessi per Covid-19 di persone detenute e 13 tra gli operatori, tutti appartenenti alla Polizia penitenziaria.

Va comunque tenuto presente che in un giorno della seconda ondata della diffusione del contagio si è raggiunto il picco di 849 casi rispetto a una popolazione di 53.608: il rapporto di questo dato rispetto agli oltre 59 milioni di italiani corrisponderebbe ad avere avuto in una giornata 938.000 contagiati.

L’area della salute è connessa a quella penale attraverso le Residenze per le misure di sicurezza psichiatriche, sorte, come noto, dopo la definitiva chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari: una riforma – è bene ricordarlo – di cui il nostro Paese deve essere fiero e che ha sanato un ritardo considerevole rispetto al dibattito di più di quarant’anni fa; un dibattito che aveva chiuso con la doppia funzione terapeutica e di controllo di fatto fino ad allora assegnata alla funzione della psichiatria. Questa premessa è d’obbligo, ora che qua e là si sentono echi di rimpianto di un passato segregativo e soprattutto ora che occorre avere la capacità di analizzare gli aspetti critici ancora presenti nella sua acerba attuazione.

In questo contesto devono  far riflettere altri dati: le sole tredici revoche di collocazione in una Rems in tutto lo scorso anno, l’aumento del 17 percento della durata media della permanenza, con picchi di 888 giorni in una regione e più di 700 in altre quattro, la richiesta di strutture di capacità maggiore di quel numero di venti utenti fissato dalla legge proprio per dare risposte il più possibile individualizzate, il permanere di una struttura multipla a Castiglione delle Stiviere, che finisce per essere un grande agglomerato del disagio, la predisposizione, infine, di un progetto terapeutico riabilitativo individuale soltanto per il 43 percento delle persone internate con misura definitiva in queste strutture.

Accanto  ai temi tradizionalmente centrali nel monitoraggio delle strutture e nella riflessione teorica in tema della salute, quali per esempio i trattamenti sanitari obbligatori, particolare attenzione è stata rivolta nel corso dell’anno alle residenze per persone anziane e a quelle per persone disabili. I dati sono riportati dettagliatamente, non soltanto rispetto alle strutture formalmente definite come residenze sanitarie assistenziali (Rsa), ma a tutte le varie forme di residenzialità, che portano a un totale di più di 420mila posti letto.

Il Garante ha rinnovato l’Accordo di collaborazione con l’Istituto superiore di sanità finalizzato alla realizzazione di un percorso condiviso di monitoraggio della diffusione del contagio nelle strutture residenziali stipulato il 10 giugno 2020. Grazie a questa collaborazione, che l’anno scorso ha permesso di monitorare le Rsa sotto il profilo epidemiologico di diffusione della pandemia con una ‘Survey’ della quale sono stati già ampiamente diffusi i risultati, il Garante nazionale partecipa alla “Sorveglianza strutture residenziali socio-sanitarie nell’emergenza Covid-19” che ha lo scopo di monitorare la frequenza e l’impatto delle infezioni da Covid9 nelle strutture residenziali e indicare le necessità rilevanti che, in caso di epidemia, richiedano un intervento di sanità pubblica urgente a livello locale, regionale o nazionale. Le Regioni attualmente aderenti al monitoraggio sono: Abruzzo, Campania, Marche, Molise, Sicilia, Toscana, Valle d’Aosta. I dati non sono ancora stati ancora diffusi.

Su questo terreno nella sua presentazione il Presidente Palma ha proposto tre o quattro osservazioni per formulare una richiesta al Legislatore. La prima riguarda l’arretratezza dei dati disponibili – gli ultimi forniti dall’Istituto di statistica sono del 2018. La seconda riguarda la classificazione delle strutture per disabili che scompaiono quando le persone compiono il sessantacinquesimo anno di età, poiché da quel momento le residenze sono classificate «per anziani» e l’analisi specifica dei bisogni e dell’adeguatezza delle risposte alle relative specificità spariscono. La terza riguarda la disomogeneità territoriale: il numero di posti letto disponibili in tutto il Sud è all’incirca la metà di quello relativo alla sola Lombardia.

Molte sono le possibili interpretazioni di questo dato: stabilire cioè se possa essere il risultato di una maggiore tendenza all’accudimento familiare e se questo sia indicativo di tutela o di diffidenza, se incida il fatto dell’alto numero di strutture private con relativi costi e se, quindi, il dato possa essere indicativo della necessità di una più incisiva azione della presenza pubblica in alcune parti del Paese. Resta la disomogeneità su cui è doveroso interrogarsi.

È doverosa una complessiva riflessione sul sistema in sé delle residenze sanitarie assistenziali e al rapporto tra pubblico e privato, sui criteri di accreditamento e i sistemi di controllo e accountability.

È indiscutibile il passo in avanti compiuto nell’area migrantirelativamente alla possibilità di reclamo, anche se si tratta per ora solo di una previsione che deve divenire operativa. Anche su altri aspetti, il Garante nazionale ha registrato un atteggiamento di maggiore apertura nell’affrontare la difficoltà di un tema che deve certamente anche tenere presente la tenuta nei territori delle ipotesi di accoglienza e delle corrispondenti messa in atto di progetti di inclusione.

Non solo, ma il Garante ha mantenuto anche un approccio relativamente aperto alla stessa problematica previsione di navi per la quarantena di persone appena irregolarmente giunte via mare: ne ha accolto l’aspetto di condizioni materiali certamente migliori di quelle offerte in sovraffollati hotspot, limitando la propria critica all’aspetto – anch’esso centrale – relativo all’effettiva informazione sui diritti e alla complessiva capacità di considerazione dei percorsi soggettivi di persone che giungono ai nostri lidi dopo esperienze spesso drammatiche vissute nei loro lunghi percorsi. Con questo spirito collaborativo ha continuato, come suo compito istituzionale, a monitorare i voli di rimpatrio forzato.

Non spetta al Garante nazionale intervenire sulle politiche che il Legislatore ha messo in campo rispetto a un fenomeno di vaste dimensioni e ampie ripercussioni nel dibattito politico. Spetta però al Garante nazionale far presente che il perpetuarsi di un approccio di tipo ‘emergenziale’ a questo fenomeno che ha ormai da venti anni almeno una dimensione strutturale può avere ricadute sul piano dei diritti delle persone, in modo particolare nei luoghi dove sono amministrativamente trattenute e private, quindi, della libertà personale. È tempo di trovare la capacità di affrontare in modo meno contingente questo tema che attiene al riconoscimento vero delle persone titolari di diritti fondamentali, qualunque sia la loro nazionalità o la loro posizione soggettiva; persone che sono comunque nel nostro territorio o sono in quei ‘luoghi’, quali per esempio le navi di soccorso italiane o quelle di altri Paesi ma nelle acque italiane, che ricadono nella nostra responsabilità e giurisdizione.

Si afferma inoltre la necessità di ripensare il modello stesso del Centro per il rimpatrio, piuttosto che inseguire le singole carenze che giornalmente si ripropongono con senso di ingiustizia per chi vi è ristretto e senso di impotenza per chi è quotidianamente responsabile di tale restrizione.

La questione è resa più chiara se si considera che la ‘produttività’ della privazione della libertà in funzione dei rimpatri continua a essere la stessa indipendentemente dall’estensione della detenzione: anche in questa Relazione riportiamo i dati percentuali e questi si sono attestati nell’anno trascorso al 50,1 percento – in modo del tutto analogo agli anni precedenti perché è sempre oscillata tra un minimo del 43 percento nel 2018 e il massimo del 59 percento nel 2017.

Con questi dati, si può delineare un insieme di interventi, nelle diverse aree di impegno del Garante nazionale, che aiutino a costruire una nuova linea di orizzonte.

Nella Relazione vengono indicate alcune tracce urgenti, a partire dalla volontà di iniziare a costruire un nuovo paradigma per la risposta alla commissione di un reato: effettivamente centrato sul concetto di percorso che chi ne è stato responsabile dovrà compiere, certamente con una sua parte più dura, sanzionatoria, ma sempre nell’ottica della riparazione possibile di quella lacerazione del tessuto sociale che ogni reato porta con sé.

La parola vita il cui valore intangibile non può essere scisso dall’aggettivo ‘dignitosa’.

Legislatore odierno si trova di fronte a scelte difficili, ricostruttive. Noi abbiamo accennato ad alcuni auspici e relative richieste per temi che ci sembrano ineludibili, uno per ogni ambito dell’azione del Garante.

Innanzitutto, per l’ambito penale, il necessario confronto per la costruzione di una norma non timorosa che effettivamente risponda allo spirito e alla lettera della pronuncia della Corte costituzionale rispetto all’ostatività per il ‘fine pena mai’.

Per l’ambito delle persone tuttora non italiane, il necessario riconoscimento del loro percorso di vita, di studi, di appartenenza al nostro Paese, che diminuisca la frammentarietà del loro sentirsi parte alla nostra comunità nazionale.

Per l’ambito della tutela della salute mentale di persone che hanno commesso reati, il pieno riconoscimento anche nel codice penale di pari possibilità per l’infermità fisica e per quella psichica, unite a un concetto di presa in carico di tali persone che non neghi quanto il dibattito in ambito psichiatrico ha positivamente prodotto nel nostro Paese.

Per la tutela dei minori la piena applicazione della legge che il Parlamento ha approvato nel 2017 e che tuttora stenta a essere applicata, anche in mancanza di alcuni decreti attuativi. Per coloro che sono ristretti in Centri in funzione del loro rimpatrio, l’adozione almeno di nuove regole omogenee che superino l’impersonalità di spazi vuoti ove spendere tempi altrettanto vuoti.

Per chi è in strutture di residenzialità variamente assistita, un ripensamento complessivo del sistema che ponga al centro la massima possibilità di espressione vitale di ogni persona, valorizzando ogni residuo di autonomia.

Qui i link alla relazione completa

In appendice alla relazione un ampio repertorio di dati e mappe di cui, di seguito vengono riportati alcuni significativi estratti.

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