La regola della violenza

di Luigi Manconi, La Repubblica, 2 luglio 2021

Quale senso dello Stato e quale idea delle istituzioni esprime un leader politico che, di fronte a crimini attribuiti a membri di corpi di Polizia, non pronuncia una parola – nemmeno mezza – di netta riprovazione? Mi riferisco a Matteo Salvini e a Giorgia Meloni, che si mostrano preoccupati esclusivamente dell'”onore” della polizia penitenziaria: quasi che, a “macchiare” quella divisa, non fossero innanzitutto quanti, mentre la indossano, si rendono responsabili di atti ignobili.

È quasi si pretendesse una organizzazione statuale dove settori delle istituzioni e degli apparati fossero sottratti al controllo di legalità e svincolati dall’ottemperanza alla legge. Qui nessuno, proprio nessuno, intende accusare in maniera indiscriminata l’intera Polizia penitenziaria, ma difenderla altrettanto indiscriminatamente – delinquenti e torturatori compresi, quindi – è un’operazione politicamente irresponsabile.

Dietro questo silenzio della destra, che corrisponde a un’autodichiarazione di correità morale e politica, non c’è solo un calcolo elettorale piccino. C’è anche una concezione dell’ordine pubblico, della detenzione e del significato e della finalità della pena che rappresenta “un tradimento della Costituzione” (come detto dalla ministra della Giustizia a proposito delle violenze nell’istituto di Santa Maria Capua Vetere). Un’idea del carcere, cioè, ridotto a luogo di contenimento e repressione dei corpi dei trasgressori e dei devianti, di sopraffazione fisica nei confronti di chi è fuori dalla norma e di afflizione psicologica per tutte le forme di irregolarità e indisciplina. Un sistema che, coscientemente o meno, persegue con ogni mezzo – dal linguaggio puerile (domandina, spesino, scopino…) alla mortificazione della sfera sessuale – l’infantilizzazione del recluso e la sua de-responsabilizzazione (verso sé e verso gli altri).

In caso di disubbidienza (per esempio, una protesta), il codice non scritto prevede la sanzione massima. Quella del 6 aprile del 2020, infatti, non è stata una esplosione di violenza incontrollata, piuttosto una vera e propria spedizione punitiva, programmata e meticolosamente messa in atto.

Dunque, la responsabilità di essa non può essere circoscritta agli esecutori materiali. E nemmeno al provveditore delle carceri campane, il quale informa in tempo reale il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, ottenendo questa risposta: “hai fatto benissimo”. Siamo in presenza, dunque, non di una manifestazione patologica, determinata da un imprevisto stato di emergenza, bensì dell’esercizio di un potere puntualmente definito (la “perquisizione straordinaria”) come strumento per ristabilire l’ordine violato.

Non a caso, qualche mese dopo, il 16 ottobre, il ministro della Giustizia, rispondendo a un’interpellanza urgente di Riccardo Magi (+Europa), definiva quella del 6 aprile “una doverosa azione di ripristino di legalità e agibilità”.

E identica risposta avrebbe fornito a Pierantonio Zanettin (Forza Italia) qualche giorno dopo. Ecco, basta leggere questi atti parlamentari per comprendere il dispositivo di menzogna e di violazione delle garanzie, che legittima e riproduce la gestione del sistema penitenziario. Il ministero della Giustizia, attraverso due diversi sottosegretari, legge in Aula un testo bugiardo dalla prima all’ultima parola, risultato di una trama ingannevole, evidentemente tessuta tra uffici del dicastero e amministrazione penitenziaria.

Ha qualcosa da dire, in proposito, l’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, indotto a mentire davanti al Parlamento? D’altra parte, il fatto che quello di Santa Maria Capua Vetere non sia stato un episodio isolato è confermato da una cronologia impressionante: nell’arco di 9 mesi, tra il luglio del 2019 e l’aprile del 2020, nove procure hanno indagato su altrettante vicende di violenze all’interno delle carceri. Per una di queste, San Gimignano, già c’è stata una prima condanna per il reato di tortura a carico di dieci poliziotti. Ripeto: non si deve dedurre da ciò che l’intero corpo della Polizia penitenziaria sia composto da criminali, ma nemmeno può dirsi che questi ultimi siano “poche mele marce”. (A proposito: le mele andate a male, anche quando rare, se lasciate nel cesto della frutta, finiscono per far marcire tutte le altre).

La concezione della pena largamente dominante all’interno dell’amministrazione (ma anche della classe politica e del senso comune), è fondata sul presupposto che il recluso costituisca un fattore di irriducibile violenza da sottomettere con il ricorso a una violenza opposta e speculare, capace di renderlo inoffensivo. Va da sé che, in tale contesto, il principio costituzionale della “rieducazione del condannato” risulti un esercizio retorico per anime belle. Se questa è la concezione della giustizia e la cultura professionale di gran parte degli operatori penitenziari, è fatale che la tensione presente tra custodi e custoditi possa portare l’aggressività latente a farsi violenza diretta.

Ciò non significa arrendersi al fatto che il carcere sia uno spazio extra-legale, sottratto a ogni controllo e a ogni possibilità di riforma. Intanto si individuino tutte le responsabilità, politiche e amministrative, di quella “orribile mattanza” (parole del giudice Sergio Enea). Sarà appena un primo passo, ma indispensabile, perché il carcere sia un luogo di esecuzione delle pene, secondo le regole dello Stato di Diritto, e non la sentina cupa e psicotica di tutte le pulsioni sadiche che la società e i suoi servizi di assistenza e cura non hanno saputo trattare: e che lì trovano sfogo.

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