La morte di Hafedh e dei suoi compagni: quando lo Stato non tutela i detenuti

di Luigi Manconi, La Stampa, 25 luglio 2021

A Modena nove carcerati morirono per overdose durante la rivolta del 2020. La foto ritrae una tomba nel cimitero di Ganaceto, una frazione di 321 anime del Comune di Modena. Si vede la terra smossa che ricopre una bara tumulata di recente e delimita il perimetro di una tomba che appare improvvisata. Conficcata nella terra, un’asta non alta che porta inchiodato un cartello sul quale sono scritti un nome e alcune date.

Sulla sommità di questo precario cippo, un piccolo mazzo di fiori composto da alcune margherite e da qualche dente di leone. Sotto il tumulo, le spoglie mortali di Hafedh Chouchane riposano in quello che è una sorta di cimitero musulmano, dove la comunità islamica del territorio seppellisce i propri morti. Non è dato sapere chi abbia assistito alla sepoltura e, nemmeno, se qualcuno effettivamente fosse presente.

A un anno di distanza dalla morte di Hafedh, avvenuta l’8 marzo del 2020 nel carcere modenese di Sant’Anna, il suo avvocato, Luca Sebastiani, un trentatreenne di Fabriano, viene finalmente a sapere dove si trova sepolto il corpo e si reca a Ganaceto: “Su richiesta dei familiari – questo il racconto del legale – ho fatto una foto per far conoscere le condizioni della tomba. Speravo di trovare dei fiori nei pressi del cimitero, ma alcuni passanti mi hanno detto che non c’era nulla nell’arco di diversi chilometri. Così, anche per rendere la foto un po’ più decente agli occhi della famiglia, ho raccolto i fiori spontanei cresciuti lì intorno; li ho legati in qualche modo e li ho inseriti nell’asta che sorregge la targhetta con il nome. Finora non ho mostrato ad alcuno la foto, ma i suoi familiari mi hanno chiesto di renderla pubblica per esprimere così la loro sofferenza per non aver potuto partecipare al rito funebre; e per non essere riusciti a rimpatriare il corpo di Hafedh, sepolto a migliaia di chilometri da dove è nato”.

Ma torniamo a quell’8 marzo. È una domenica mattina quando i carcerati apprendono che tra loro si registrano uno o più casi di contagio da coronavirus. La notizia precipita in un istituto dove, rispetto a una capienza massima di 370 posti, la popolazione reclusa conta 546 unità.

E in un ambiente particolarmente fragile sotto il profilo psicologico: ogni giorno, l’infermeria prepara circa 1000 somministrazioni di ansiolitici per stati di agitazione e panico e terapie per la tossicodipendenza. In questa situazione così congestionata e suscettibile di crisi emotive, i reclusi “sono stati lasciati nelle già precarie condizioni di igiene cui erano sottoposti prima, senza l’ausilio di dispositivi medici, a condividere le celle, in assenza della messa in sicurezza per eventuale contagio” (dall’opposizione dell’avvocato Sebastiani contro l’archiviazione dell’indagine sulla morte del suo assistito). Questo mentre vengono sospesi i colloqui con i familiari e si diffonde l’inquietudine.

È in tale scenario che “alle ore 13.15 circa – secondo un rapporto del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria – nelle fasi di immissione dei detenuti ai cortili” si verifica un tentativo di evasione, tempestivamente contenuto dai poliziotti, utilizzando anche “autovetture e altri mezzi blindati”. Nel frattempo, un gruppo di detenuti riesce ad accedere all’area sanitaria. È qui che si trovano i medicinali, quali il metadone e altri oppioidi, utilizzati nell’assistenza ai tossicomani. Va da sé che simili farmaci costituiscono un bene estremamente prezioso e ambito, che richiede la massima attenzione nella custodia e nell’utilizzo, dal momento che il suo uso improprio può avere conseguenze letali.

Ne discende la domanda: quei farmaci erano effettivamente posti al riparo da eventuali tentativi di appropriazione? Secondo la Procura, la custodia veniva garantita “in maniera irreprensibile e inappuntabile”, ma – ad avviso dell’avvocato Sebastiani – “appare di poca utilità avere una cassaforte molto difficile da scassinare se poi si nascondono le chiavi della stessa all’interno di una cassetta non sufficientemente sicura” e facilmente reperibile e apribile. E non è nemmeno certo che quelle chiavi fossero state riportate all’interno della cassetta. Fatto sta che almeno nove detenuti assumono il metadone finendo in overdose, determinando così la propria morte. Questi i loro nomi: Hafedh Chouchane, Lofti Ben Masmia, Ali Bakili, Erial Ahmadi, Slim Agrebi, Abdellah Rouan, Ghazi Hadidi, Arthur Isuzu, Salvatore Piscitelli. Noto, incidentalmente, che 4 di essi si trovavano in attesa di giudizio. E che, altrettanti, sono morti durante o dopo il trasferimento in altre carceri. Non solo: c’è un altro dato controverso che può risultare determinante.

Secondo la ricostruzione della Procura e del Gip, Hafedh è stato consegnato ancora in vita da detenuti non identificati nelle mani degli agenti, nei pressi del passo carraio interno del carcere, alle ore 19.30. Benché il Comandante della Polizia penitenziaria abbia affermato che gli era stato prestato soccorso prontamente, il medico ha dichiarato di non aver potuto far altro che constatarne la morte: ma giusto 50 minuti dopo. Nonostante che il 118 si trovasse a poche decine di metri da quel passo carraio.

D’altra parte, secondo le deposizioni di alcuni detenuti, Hafedh, assunto il metadone intorno alle 13,30 e collassato già un’ora dopo, veniva trasportato dai compagni là dove si trovavano gli agenti della penitenziaria: e vi sarebbe rimasto per molte ore, senza la minima assistenza. Questa ricostruzione sembra confermata dalle risultanze medico-legali, secondo le quali la presenza del metadone nei reni proverebbe che la sostanza fosse stata assunta molto tempo prima. Nonostante tutto questo, il Gip ha disposto l’archiviazione. Da qui il ricorso davanti alla Corte Europea dei Diritti Umani.

Ma la questione della custodia del metadone ne contiene un’altra, ancora più rilevante. E richiama la responsabilità degli apparati dello Stato per la custodia di chi si trovi prigioniero, sottoposto a osservazione, controllo e vigilanza. La privazione della libertà incide a tal punto sull’autonomia dell’individuo da limitarne gravemente la capacità di proteggersi da sé. Tale funzione, di conseguenza, viene assunta dallo Stato. Quando questa tutela non viene garantita o si rivela inadeguata, è lo Stato (il carcere) che ne deve rispondere.

L’archiviazione dell’indagine per la morte di Hafedh e dei suoi compagni significa propriamente questo: nessuno risponderà di quella strage. Il motivo è semplice e crudele: quelle morti non contano in quanto sono “leggere come piume”. Eppure, la vita di Hafedh avrebbe potuto prendere un’altra piega. Fino al 2006, vive a Mahdia, sulla costa a sud di Tunisi, con i genitori entrambi disoccupati, due fratelli pescatori e due sorelle. Poi, la decisione di raggiungere l’Italia. Come migliaia e migliaia di suoi simili lavora come bracciante agricolo nelle campagne siciliane. In seguito si trasferisce a Brescia, dove trova un’occupazione precaria nei servizi di ristorazione. Una vita in nero e un lavoro in nero. In tali condizioni, il passaggio alla micro-criminalità si propone come una tentazione cui non è facile resistere.

Il mercato delle sostanze stupefacenti offre una grande quantità di “opportunità lavorative” al livello più basso. Quello che viene definito “piccolo spaccio” costituisce un sub-mercato illegale dove operano persone che vivono ai margini, in stato di semiclandestinità, dipendenti – in tutti i sensi – dalla circolazione delle droghe. Non a caso, Hafedh era tossicodipendente, seguito dal Sert e detenuto in esecuzione di due condanne definitive, che pure gli avrebbero consentito di tornare in libertà dopo appena alcune settimane da quel marzo del 2020.

Non poteva accadere prima, perché Hafedh, come gran parte degli stranieri, non era in grado di beneficiare di misure alternative in quanto privo di un domicilio adeguato. Il suo domicilio era la cella: ed è qui che ha trovato la morte. E appena otto chilometri più oltre, un rilievo sul terreno che segnala la sua tomba e, se hanno resistito, alcuni denti di leone.

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