La “messa alla prova”: una prova anche (e soprattutto) per le istituzioni

di Carla Chiappini*, Ristretti Orizzonti, 24 giugno 2021

Un’opportunità per le persone imputate, un’ottima occasione per sgomberare i tribunali di fascicoli arretrati, un alleggerimento per il carcere, un impegno serio per il Terzo Settore.

Da subito, dall’autunno del 2014 la nostra associazione si è impegnata con un progetto sperimentale rivolto alle persone “messe alla prova”, un progetto che poneva e pone tutt’oggi al centro con chiarezza e senza ambiguità un lavoro serio di riflessione su di sé e la condivisione inizialmente all’interno del gruppo ma poi anche – attraverso momenti di testimonianza e con la pubblicazione di una selezione di scritti – con il territorio e la cosiddetta “società civile”.

Siamo partiti da precise e dichiarate competenze professionali e ad oggi abbiamo seguito più di 150 persone.

La premessa solo per contestualizzare le brevi osservazioni che seguono.

La “messa alla prova” è un istituto delicato che necessita di cura, attenzione e obiettivi un po’ più alti del semplice mandato riparatorio (o retributivo?) che sembra soddisfare il pensiero – a mio avviso – meno evoluto del “chi sbaglia paga”. I penalisti dicono che, non essendo una pena perché le persone sono semplicemente imputate, non vale il mandato costituzionale della rieducazione. E dunque?

Nella nostra esperienza – siamo un gruppo di volontari con professionalità complementari, differenti età ed esperienze – abbiamo visto che, come ama ripetere uno di noi (il più saggio), basta grattare un po’ sotto la superficie e dietro reati di modesta pericolosità sociale, molto spesso si nascondono storie complesse di fatiche, solitudini e fallimenti. Di questa “mancanza” di cui parla anche Marco Bouchard chi si occupa? Chi si prende cura?

Ma davvero pensiamo che si sistemi tutto facendo qualche ora di “lavori di pubblica utilità” in una parrocchia, in una cooperativa o in una associazione di volontariato o in un ufficio comunale? Quasi per una misteriosa contaminazione positiva?

Noi lavoriamo con la metodologia autobiografica, seguiamo le persone con cura e attenzione, abbiamo testato un metodo che finora ci ha dato segnali molto positivi.

Siamo consapevoli che non è il solo modo possibile, che – ahimé – non siamo in grado di fare miracoli, che questa esperienza non è poi sempre replicabile, che è necessario avere in mano le carte della competenza e, insieme, la scelta della gratuità perché i costi di un’attività simile sarebbero insostenibili per le istituzioni. Siamo certi che sicuramente esistano altre strade, altri percorsi, altre risposte. A condizione, però, che gli obiettivi siano chiari. Per chi deve essere un’opportunità la “messa alla prova”? Per le persone imputate o per le istituzioni? Ovviamente il risparmio di energie e risorse pubbliche è enorme. Alleggerimento della popolazione detenuta, niente processi; solo rapidissime udienze e la formalizzazione di una proposta costruita – in larga parte – insieme al Terzo Settore e agli Uffici di Esecuzione Penale Esterna che, tra l’altro, si sono ritrovati oggettivamente oberati di lavoro. A discapito di quella cura e di quell’accompagnamento di cui abbiamo beneficiato nei primissimi anni della probation.

È una bellissima idea quella che vuole ridurre l’impatto del carcere sulle persone e sulla comunità ma francamente non può non essere riempita di contenuti e proposte formative. Se davvero si vuole aprire una nuova strada per la giustizia penale. Altrimenti rischia di ridurre tutto a una mera tabella di costi e di risparmi.

Oggi, subito – alla luce della proposta di estensione della “messa alla prova” a reati punibili fino ai 10 anni di carcere – è il momento di porsi delle domande e soprattutto di cercare risposte valide. Gli Uffici di Esecuzione Penale Esterna non contemplano funzionari di formazione pedagogica. Assistenti sociali (quasi sempre troppo pochi per il carico di lavoro), qualche ora dello psicologo ma niente da fare per la “rieducazione”. Nemmeno per le persone condannate che stanno scontando una pena all’esterno che avrebbero probabilmente più e meglio delle persone recluse, la possibilità di lavorare sui propri comportamenti e sulle scelte illegali. Il nulla.

Ieri sera, riflettendo con il gruppo di persone “messe alla prova” sui reati commessi, una giovane donna ha detto “conosco il perché ma so che ci devo ancora lavorare molto”.

Sì benissimo ma lavorare come? Con chi? Da sola?

Questa è la domanda nevralgica per il legislatore innanzitutto, ma poi anche per le Istituzioni che hanno il compito di occuparsi della pena: esiste un’idea, una fiducia nella rieducazione? Un pensiero pensato magari da pedagogisti, da professionisti e studiosi dell’educazione degli adulti? Crediamo davvero che le persone possano modificare i propri comportamenti? E, se sì, come?

*Esperta in scrittura autobiografica, responsabile del progetto MAP di “Verso Itaca APS”

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