La condanna dei due giovani americani e un ergastolo immaginato implacabile

di Adriano Sofri, Il Foglio, 9 maggio 2021

Ho letto pochi commenti alla conclusione del processo romano che ha condannato all’ergastolo due giovani americani per l’uccisione del sottufficiale dei carabinieri Mario Cerciello Rega. Non ho seguito il processo, e molto superficialmente le cronache di due anni fa: dunque mi uniformo alla convinzione di chi ha giudicato.

Mi interrogo solo sulla pena massima in cui la Corte d’assise ha tradotto il suo giudizio di colpevolezza. Accantono considerazioni esteriori che sono per definizione azzardate: che la Corte abbia voluto mostrarsi drastica per risarcire la vittima e con lei l’Arma dalle ombre sollevate sulla vicenda, o per dissipare il dubbio di qualche compiacenza verso la cittadinanza statunitense degli imputati, in un paese che ricorda il Cermis e Abu Omar.

Penso invece a giudici pienamente convinti della colpa che decidono di tradurre nella pena proporzionata, e optano per l’ergastolo. Dunque escludono, per due ventenni, l’eventualità che nel corso futuro della loro vita, cui la statistica accorda un tempo lunghissimo, la pena adempia alla finalità dettata dalla Costituzione: art.27, “Le pene… devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ammettiamo che qualche giudice abbia sollevato la questione.

La risposta può essere stata che l’ergastolo in Italia (dove si ama dividere le cose in due) ha ormai due significati: uno inesorabile, detto “ostativo”, e peraltro appena inficiato dalla Corte costituzionale; e uno malleabile, per così dire, e che infatti fa dire a cuor leggero: “Tanto in Italia l’ergastolo non esiste…”. E fa obiettare, a cuore meno leggero: se non esiste, perché continuare a farlo esistere? Perché rendere omaggio a quella “perpetuità” della pena se non per una superstizione simbolica o retorica? Tradotta nella lingua dei due condannati, la sentenza suona così, la prigione a vita.

Le donne e gli uomini che giudicano possono sentire, immagino, che finché il codice conserva la pena dell’ergastolo non tocchi a loro di derogare. È davvero così? Una condanna a 24 anni (le pene massime italiane sono di gran lunga superiori a quelle della media degli altri paesi europei) sarebbe parsa indulgente?

C’è un’altra ipotesi. Che la Corte abbia pensato, si sia detta, che la sentenza di prima istanza meriti di essere esemplare, e che poi, “siamo in Italia”, l’appello provvederà a smussarla. Voglio sperare che non sia successo.

Giorgia Meloni, leggo, ha auspicato che la condanna dei due giovani “venga scontata senza sconti”. Forse è stata impulsiva. La condanna, intanto, è stata pronunciata in primo grado. Quanto agli “sconti”, sono previsti variamente – buona condotta, permessi, semilibertà, libertà condizionata… – dal codice, alla cui lettera e al cui spirito l’auspicio contrasta. Oltre che al senso dell’umanità, anch’esso nell’art. 27. C’è un’abitudine pervicace a scambiare la “certezza della pena” per l’affettuoso “buttare via la chiave”.

Ho una postilla, quasi buffa, l’ho suggerita altre volte. La durata media della vita si è allungata prodigiosamente, benché la pandemia lavori ora a rosicchiarne i guadagni. A metà dell’Ottocento si arrivava sì e no ai 40 anni. Un ventenne all’ergastolo aveva la prospettiva di un’altra ventina d’anni di galera. Oggi l’ergastolo di un ventenne equivale a una condanna a sessant’anni. Quasi buffo, no? I pullulanti giustizieri dovrebbero proporre l’aumento proporzionale delle pene, come una scala mobile che le indicizzi automaticamente alla longevità. Infine: un avvocato della difesa ha detto che “l’ergastolo per quei due giovani è peggio della pena di morte”. Ogni (quasi) argomento è lecito a un avvocato difensore. Ma niente è peggio della pena di morte. E un ergastolo immaginato implacabile non è il compenso al ripudio della pena di morte, ma la sua contraddizione. L’abolizione dell’ergastolo è il passo moralmente e ragionevolmente successivo al ripudio della pena di morte.

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