“Io, magistrato antimafia dico: l’amnistia non è un tabù”

di Valentina Stella, Il Dubbio, 15 luglio 2021

Parla Stefano Musolino, sostituto alla Dda di Reggio Calabria: “Preferiamo guardare al futuro con audacia e prospettiva innovativa in cui coltivare una giustizia penale meno carcerocentrica”.

Si è da poco concluso il XIII Congresso Nazionale di Magistratura Democratica: al centro della discussione non sono mancate le riflessioni sulla riforma del processo penale elaborata dalla Ministra Cartabia. Continuiamo a discuterne con il dottor Stefano Musolino, Sostituto procuratore della Repubblica – DDA di Reggio Calabria, tra i più votati al Consiglio nazionale di Md, insieme a Cinzia Barillà, magistrato di Corte di Appello sempre a Reggio Calabria. Sul tema dell’amnistia il dottor Musolino ci dice: “siamo in una fase di transizione e dobbiamo accettarne le sfide come una possibilità, piuttosto che con timore conservativo”.

Dottor Musolino, secondo Lei con questa riforma proposta dalla Ministra Cartabia si recupera un paradigma garantista del processo penale?

A me pare che il congresso di Magistratura democratica abbia apprezzato l’ispirazione di fondo della proposta Lattanzi: tenere insieme celerità del processo e garanzie. Queste ultime sono un metodo cognitivo imprescindibile, affinché l’esito processuale sia espressione di autentica “giustizia”; anche se, a volte, sono interpretate come un mantra retorico a tutela dei potenti (garantismo inteso come anticamera di immunità ed irresponsabilità). Noto, tuttavia, che gli emendamenti del Governo al testo della relazione Lattanzi, hanno determinato alcune pericolose trasformazioni, su cui va posto grande attenzione.

Durante il congresso si è parlato di amnistia quale possibile misura per sfoltire l’ingolfamento della macchina giudiziaria. Qual è il suo pensiero in merito?

Nel congresso Andrea Natale ha avuto il coraggio ed il merito di pronunciare quella parola, accolta con favore dall’assemblea. Non è scontato per un gruppo di magistrati. Ma siamo in una fase di transizione e dobbiamo accettarne le sfide come una possibilità, piuttosto che con timore conservativo. Preferiamo guardare al futuro con audacia e prospettiva innovativa in cui coltivare una giustizia penale meno “carcerocentrica”, assecondando un’altra ispirazione di fondo della proposta Lattanzi. Nel merito, occorre distinguere due profili. Il primo attiene senza dubbio alla necessità di ridare agibilità e dignità costituzionale agli istituti clemenziali. Mi pare necessario – Md lavora da tempo sul tema – riformare l’art. 79 della Costituzione, per consentire l’approvazione dell’amnistia con la maggioranza assoluta dell’assemblea, ma solo in condizioni di motivata straordinarietà e per raggiungere obiettivi costituzionali inerenti al dover essere: la pandemia, o una riforma globale del processo. Una volta superato questo step, si può passare al secondo: decidere se, quando e come mettere in moto un’amnistia concreta.

Considerato che l’amnistia è quasi un tabù per alcuni partiti e per una fetta della popolazione, quali potrebbero essere le misure da adottare non previste nell’attuale pacchetto di emendamenti governativi?

La mancanza di coraggio della politica non è neutrale. Nelle condizioni date, senza alcun intervento, la riforma è inapplicabile ovvero genera un’amnistia sostanziale e silente, senza che alcuno se ne assuma la responsabilità e, soprattutto, senza risolvere il problema del congestionamento dei ruoli di alcune corti, aggravato da croniche carenze di personale amministrativo e di magistrati. In aggiunta, servirebbe una decisa depenalizzazione. Ma – come ben intende – la politica non può risolvere i problemi, senza assumersi responsabilità ed investire risorse nei nodi e luoghi dove più evidente è l’inefficienza organizzativa del sistema.

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