Il senso del limite

di Michele Passione*, Ristretti Orizzonti, 19 luglio 2021

Lo scorso 12 luglio sono state depositate le motivazioni con le quali la Corte di Assise di Roma ha condannato alla pena dell’ergastolo (con isolamento diurno per due mesi) gli imputati (diciannovenni all’epoca dei fatti) dell’omicidio del carabiniere Cerciello Rega.

Non conosco la vicenda nei dettagli, e dunque mi asterrò da un’analisi delle risultanze processuali; altri sono i luoghi ove verrà sottoposta ad analisi critica la sentenza di primo grado.

Qualche riflessione può invece farsi sull’antefatto e sull’epilogo, ma soprattutto su ciò che si legge a pg. 281, su cui torneremo a breve.

Antefatto, di cui la Corte non sembra occuparsi (eppure la foto ha fatto il giro del mondo): un ragazzo bendato (per mezz’ora, o forse un’ora) negli uffici dei carabinieri dopo il suo arresto. Chissà cosa diranno a Strasburgo tra qualche anno.

Epilogo: l’immonda pena dell’ergastolo (pena congrua, secondo la Corte), che ancora trova spazio in un ordinamento che aspira ad aprirsi a soluzioni sanzionatorie di altro tipo e nel frattempo si appoggia all’alibi della liberazione condizionale per giustificare la pena perpetua (guardare i numeri, prima di darli). Dunque, fine pena mai, poi si starà a vedere.

Come tutte le vicende processuali contraddistinte dall’attenzione mediatica, anche questa, drammatica, non può dirsi esente da condizionamenti, magari neanche percepiti fino in fondo dall’estensore della sentenza nella loro profondità.

Si allude, e non può che esser così, a quanto si legge a pg.281, ove si affronta il tema dell’attendibilità del teste Varriale, unico teste oculare ed escusso ex art.210 c.p.p.

Nell’occorso, dopo aver confutato tutte le argomentazioni difensive, la Corte si chiede “perché dileggiare la condotta delle vittime e metterle sul banco degli imputati come reiteramente è stato fatto in questo processo, esercitando il diritto di difesa al limite del consentito e della decenza?”

Com’è evidente, non è possibile arrestare l’analisi di questo passaggio sul piano del bon ton processuale, che certo non dovrebbe consentire ad un giudice (neanche se sottoposto ad una difficile ricostruzione dei fatti – soprattutto in questi casi) di “dileggiare” le difese.

L’oggetto della prova è regolato dall’art.187 del codice di rito, e per quel che riguarda la prova testimoniale l’art. 194/2 consente di valutare la personalità della persona offesa alle condizioni ivi previste. Ovviamente, il giudice è chiamato a valutare (e a non ammettere) le domande nocive, suggestive, lesive del rispetto del teste, ma non può affatto impedire che la difesa proponga la sua tesi e le sue ipotesi ricostruttive, neanche laddove (come la Corte segnala, quasi fosse una bestemmia in chiesa) ciò implichi l’ipotesi di reati commessi da altri.

Se così fosse, il diritto di difesa verrebbe ridotto a un simulacro, né può pretendersi che solo difensori timidi e inconsapevoli del proprio ruolo possano trovare spazio nell’agone processuale; laddove si tratti di misurarsi con evidenti tensioni probatorie non è consentito pensare a zone franche, quasi che indossare una divisa consegni una verginità che nessuno può mettere in discussione. Di più; la sottoposizione al vaglio critico del teste e di ogni prova di accusa costituisce uno dei momenti salienti dell’attività difensiva nel momento del contraddittorio su cui si regge l’acquisizione della prova. Diversamente opinando, il processo assumerebbe una matrice autoritaria che speriamo di poter lasciare in disparte.

Infine, indigna ogni difensore dover leggere (senza che si offra argomentazione in proposito) che si è esercitato “il diritto di difesa al limite del consentito e della decenza”.

Non è dato comprendere se il passaggio alluda ad un’incontinenza delle domande (non indicate) o alla tesi sviluppata. Conosco i difensori di questo processo e le loro capacità professionali. So per certo che mai userebbero espressioni lesive nei confronti di chicchessia, e con altrettanta certezza che mai tirerebbero indietro la gamba per difendere il loro assistito. Non è “L’inquisito” di Saviane il loro modello. Al contrario; la verità sta più sovente nelle domande che nelle risposte: “le parole sono protagoniste del fare ordine, e per fortuna hanno ancora i loro difensori” (Sepulveda).

Se la difesa si mantiene “nel limite” delle regole processuali (il processo costruisce regole quali limite alla forza dello Stato, a tutela dell’imputato) il porre ostacoli al suo esercizio rivela una concezione che va respinta, perché “oltre ogni limite” c’è una voce sola, oppure il silenzio.

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