Il consenso nell’epoca del «populismo penale»

Si tratta di una tecnica del potere che si mostra professionalmente capace contro i «nemici»

di Nadia Urbinati | Corriere della Sera 26/06/2019

Negli ultimi anni, due questioni si sono dimostrate trasversali a tutte le forze politiche, anche se più efficacemente affrontate e implementate da partiti e governi di destra: quella relativa all’immigrazione; e quella relativa alla sicurezza largamente intesa: dalla normativa stradale (con l’inasprimento delle pene già deciso dal governo di centro-sinistra) a quella sull’autodifesa (con la larga tolleranza decisa da questo governo) a quella sulle manifestazioni di piazza (duramente trattata dal Ministro degli interni).

Su entrambe le questioni — contro i nemici esterni e contro quelli interni — si è registrato un consenso popolare sorprendente. Si tratta di un consenso che viene alimentato usando sapientemente l’emozione della paura e che si concretizza nella richiesta (e nella proposta) di soluzioni immediate e tecnicamente efficaci, anche a costo di stiracchiare i limiti al potere esecutivo. Chi meglio tiene in mano una risposta dura all’immigrazione e alla microcriminalità conquista il favore dell’audience; che in pratica significa un mandato largo (sempre più largo a giudicare dal Decreto sicurezza bis) agli organi governativi più direttamente responsabili della repressione. Ne risulta un esito paradossale:la depoliticizzazione della sfera politica o di larga parte di essa (la sicurezza, si dice, non è né di destra né di sinistra) e un’iper-politicizzazione dell’argomento della difesa della società e degli strumenti per attuarla.

Nella letteratura politica questo fenomeno è chiamato Penal populism, populismo che si serve del codice penale. L’uso di questo neologismo lo si deve a Anthony Bottoms che nel 1995 ha collegato l’aggettivo «populista» al sostantivo «punitività» (punitiveness) per significare la propensione dei governi populisti a trasformare questioni di disagio sociale in questioni di law and order. La strategia della risposta operativa (efficacia nella repressione) mette a tacere la politica della prevenzione, perseguita dalla democrazia dei partiti nell’era dello stato sociale.

Il declino del welfare ha allargato le maglie del linguaggio della colpa e della pena, ha esteso l’uso delle istituzioni penitenziarie e del controllo sociale coattivo, come a compensare la fragilità dello stato sociale. In alcune analisi comparate nei paesi di area angloamericana sulla relazione tra politiche della sicurezza e opinione pubblica, la cornice concettuale del populismo penale è stata definita come uso propagandistico dei dicasteri della sicurezza con lo scopo di estendere il consenso all’esecutivo. Luigi Ferrajoli ha messo in evidenza come le politiche che sfruttano la paura generica dettata dall’insicurezza mettendo mano al codice penale tendano ad accentuare le misure repressive fino a mettere a rischio il rispetto delle libertà civili. Stefano Anastasia e Manuel Anselmi hanno recentemente sostenuto che il populismo penale non è una specifica ideologia ma una tecnica del potere che usa il codice penale per definire i «nemici» e acquista consenso nel mostrarsi professionalmente capace contro di essi.

Quest’attitudine si alimenta della logica della scorciatoia. Non è in contraddizione diretta con la Costituzione, ma opera una torsione interpretativa che si fa forte dell’autorità dell’audience, mettendo in secondo piamo quella delle norme e dei principi. L’esito dell’uso populista del codice penale è ben noto agli studiosi dei populismi latinoamericani, così sintetizzato da Kurt Weyland: «tutto per i mei amici; per i miei nemici, la legge». Si tratta di una logica di radicale parzialità a sostegno di una politica strabica: inasprimento delle pene per chi manifesta dissenso, strizzata d’occhio e sostegno esplicito per gli alleati.

Il populismo al potere resta nel tracciato della democrazia costituzionale ma a costo di stiracchiarla come un elastico, fino a portarla ai confini estremi oltre i quali c’è qualcosa d’altro, qualcosa che conosciamo bene e che si chiama tirannia. E’ evidente che non possiamo parlare di «crisi della democrazia» ogni qualvolta le elezioni ci consegnano maggioranze spiacevoli: non c’è nulla di non democratico nell’avere partiti di destra al potere. Ma quel che cambia con questo tirare dell’elastico costituzionale è il tenore della vita politica, dentro e fuori lo stato; è la dimensione simbolica e delle credenze che cambia fino a giustificare restrizioni della libertà di espressione che sarebbero impensabili in altri tempi e circostanze, o che comunque sarebbero oggetto di un’intensa opposizione. Non invece nel tempo del populismo penale, che gode di un consenso quasi egemone, ben al di là della maggioranza numerica.

https://www.corriere.it/opinioni/19_giugno_26/consenso-nell-epoca-18cf3d22-9826-11e9-ab34-56b2d57d687f.shtml

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