Il carcere: una prospettiva di genere

di Debora De Carolis, treccani.it, 31 marzo 2021

Quando si parla di detenzione il più delle volte se ne trascura la dimensione femminile, sia a causa del ristretto numero di delinquenti donne, da sempre sensibilmente inferiore a quello dei delinquenti maschi, sia a causa della persistente difficoltà culturale ad affrontare ed inquadrare la problematica della donna-delinquente.

Storicamente, la donna deviante, che contravveniva cioè alle regole che la società (maschile) si era data, non è mai stata considerata come portatrice cosciente di ribellione o di disagio sociale, ma, piuttosto, in ragione della sua presunta inferiorità biologica e psichica, come una “posseduta” (ad esempio una strega) o una malata di mente (ad esempio un’isterica); e questo perché non si poteva ammettere, culturalmente, che una donna potesse coscientemente desiderare e decidere, con autonomia di scelta, di infrangere la legge scritta dagli uomini.

Cesare Lombroso, universalmente riconosciuto come il fondatore dell’antropologia criminale, fu il primo a tentare una analisi sistematica della problematica della delinquenza femminile, individuando, nel suo testo del 1893 intitolato La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, nella maggiore debolezza e stupidità delle donne rispetto agli uomini la causa della minore diffusione della criminalità femminile.

Inoltre, la donna delinquente è sempre stata considerata colpevole non soltanto di aver trasgredito la legge posta dagli uomini, ma anche di aver tradito, commettendo il reato, la propria natura femminile, tradizionalmente dedita alla maternità. La donna delinquente subiva, pertanto, una doppia emarginazione, sia perché colpevole sia perché donna degenere e, eventualmente, anche madre degenere. Secondo quest’ottica paternalistica, le donne, più che punite, dovevano, dunque, essere corrette nella loro personalità, per essere ricondotte al modello femminile dominante, tanto che, fino al 1990, anno della istituzione del Corpo di Polizia Penitenziaria, la custodia delle donne detenute era affidata alle suore che impostavano la vita carceraria non tanto sulla punizione, quanto piuttosto sulla “correzione” dell’errore commesso, utilizzando i lavori domestici, le attività legate ai ruoli femminili tradizionali e la preghiera quali strumenti per agevolare il ravvedimento.

Alla donna veniva pertanto proposto di adeguarsi a vivere la casa come proprio mondo di riferimento e di azione e interiorizzare la famiglia come spazio di stabilità affettiva e di realizzazione, secondo l’uso e l’ideologia del tempo. Così, il modello di educazione alla dipendenza, che da sempre è stato alla base della socializzazione delle donne, si è riprodotto a lungo anche in carcere: infatti, se per l’uomo l’istituzione detentiva doveva servire a far sì che il reo accettasse le regole del patto sociale infrante con la commissione del reato, per le donne la carcerazione assolveva piuttosto una funzione rieducativa, il che significava innanzitutto indurle ad accettare la subalternità del proprio ruolo.

Tale modello di gestione della vita detentiva femminile, attuato attraverso la vigilanza di suore, è rimasto pressoché invariato fino alle riforme degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. In linea di principio, con le predette riforme, reclusione maschile e reclusione femminile si sono avvicinate: quest’ultima laicizzandosi (alle suore si sono sostituite dapprima le vigilatrici e poi le agenti di polizia penitenziaria), e la prima indirizzandosi verso obiettivi di rieducazione e di reinserimento sociale. Assimilando sempre di più i due modelli di reclusione, però, la dimensione femminile ha finito con l’essere ancor meno visibile, e i problemi organizzativi e di gestione connessi alla detenzione femminile sono divenuti paradossalmente ancora più residuali, fagocitati dalle problematiche che suscita la detenzione maschile.

La criminalità e la detenzione femminile sono divenute materia specifica d’indagine e di studio solo in tempi relativamente recenti. Tale accresciuto interesse ha coinciso con l’emergere, negli anni Settanta del secolo scorso, di un nuovo protagonismo sociale e culturale della donna, che si è tradotto, sul piano legislativo, nell’approvazione di una serie di leggi a favore della libertà e dell’emancipazione delle donne (dalla procreazione controllata alla depenalizzazione dell’aborto, dal divorzio all’abrogazione del reato di adulterio femminile). Malgrado la maggiore visibilità delle “questioni femminili”, in ambito criminale e penitenziario si sono registrati tuttavia scarsi mutamenti: gli uomini restano, ancora oggi, i protagonisti quasi esclusivi della realtà e della scena carceraria e criminale. Le donne rappresentano, infatti, una percentuale minoritaria dell’intera popolazione detenuta italiana (rimasta pressoché costantemente attestata intorno al 5% delle presenze complessive).

Il ristretto numero di donne in carcere ha comportato una strutturazione del sistema penitenziario fondato sulle esigenze di custodia di uomini, che non tiene conto delle problematiche e specificità della popolazione detenuta femminile. Il carcere, così come concepito e organizzato nella pratica, rappresenta un’istituzione totale maschile, con regole rigide e predeterminate tese al contenimento dell’aggressività e della violenza, in cui non vi è spazio per il profilo emozionale che è proprio dell’esperienza comunicazionale di ogni donna che, conseguentemente, risulta rinchiusa non soltanto in un perimetro fisico, ma anche psicologico e umano, alienata dalla propria identità. Come molti operatori penitenziari osservano, la condizione detentiva è, per la donna, carica di una componente afflittiva ulteriore. Si riscontra, infatti, una particolare insofferenza alla detenzione da parte delle donne detenute, insofferenza che viene accentuata dal distacco dalla famiglia e che colpisce le donne in quanto tali, con disturbi fisici e malattie, tutti prevalentemente di carattere psicosomatico (amenorrea e disturbi mestruali in genere, cefalea, stipsi, anoressia, bulimia, gastriti, depressione), come se esse vivessero sul loro corpo non solo il peso della reclusione e della costrizione in un ambiente ristretto (questo lo vivono anche gli uomini), ma anche il diverso succedersi del tempo, l’angoscia della separazione, la negazione della femminilità e della maternità.

È evidente che quella che gli operatori chiamano “particolare insofferenza delle donne verso il carcere” è una condizione legata proprio all’essere donna, e per questo diversa da quella maschile: la perdita del proprio ruolo di moglie/madre/figlia, la lontananza dagli affetti, il senso di colpa per aver “abbandonato” i figli e la mancanza assoluta di controllo sulla propria vita che il carcere, in cui ogni gesto quotidiano è minuziosamente regolamentato, produce sul detenuto, causano maggiore sofferenza alle donne, abituate a “gestire” da sole la vita propria e spesso quella degli altri. In quel piccolo universo chiuso e sospeso, la donna cerca allora di riempire il vuoto e la mancanza di affetto attraverso piccoli gesti rivolti a persone e cose. La cura del proprio corpo, delle proprie cose, della cella, del proprio lettino rispondono al bisogno della donna di ritrovare un proprio spazio, una propria identità: un “ritrovarsi” nella confusione, spersonalizzazione e alienazione che il carcere crea. Forse è anche in questo che rientra la difficoltà delle donne ad accettare le regole, regole che sentono distanti perché declinate sul modello del detenuto maschio adulto: la forza con cui si oppongono a un annullamento della propria persona e della propria femminilità da parte di un’istituzione più forte e maschile.

Quando si affronta la questione della detenzione femminile non si può certo sottacere il problema della maternità e della presenza in carcere di figli minori. Quando ad essere confinata è una madre, la carcerazione inevitabilmente riverbera i suoi effetti anche sui figli che ne dipendono emotivamente e materialmente. La legge di riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975 ha sancito, per le detenute madri di figli di età inferiore a tre anni, il diritto di tenerli con sé in istituto, consentendo così di instaurare con loro quel legame profondo tanto importante nei primi anni di vita. È evidente, però, che il rapporto madre-figlio, considerato alla luce della particolare posizione della madre-detenuta, presenta un’inconciliabilità: da un lato, tutelare il ruolo di madre significa consentire alle detenute di accudire i propri figli; dall’altro, proteggere l’infanzia vuol dire permettere ai bambini di crescere in ambienti adatti al loro sviluppo psicofisico. È facilmente intuibile che un contesto monotono e privo di stimoli come il carcere, delimitato negli spazi da chiavistelli e sbarre, con aria e luce limitati e connotato dall’assenza di autorevolezza della figura genitoriale, non sia idoneo a consentire questo corretto sviluppo e determini, anzi, l’insorgere di gravi disturbi relazionali e comportamentali.

È stata proprio l’esigenza di salvaguardare il superiore interesse del minore a ricevere cure materne costanti all’interno di un ambiente idoneo a sollecitare l’intervento del legislatore con la previsione di una ricca e articolata rete di istituti indirizzati alla decarcerizzazione delle donne che accudiscono figli nell’età dell’infanzia. Esemplificativa a tal proposito è la legge 21 aprile 2011, n. 62, la quale prevede per le detenute incinte o madri di prole di età non superiore a sei anni la possibilità che venga disposta nei loro confronti la custodia presso Istituti a Custodia Attenuata per Detenute Madri (cc.dd. I.C.A.M.), allo scopo di preservare la relazione materna e consentire ai figli delle detenute di trascorrere i loro primi anni di vita in un ambiente “familiare” che non ricordi il carcere, riducendo così il rischio d’insorgenza di problemi di sviluppo della sfera emotiva e relazionale dell’infante. Pur riconoscendo i progressi compiuti in questa direzione, ad oggi sono in numero crescente le madri che, a causa della permanenza di alcuni fattori normativi e fattuali, rischiano, tuttavia, di scontare la pena dietro le sbarre, eventualmente insieme ai propri bambini.

Quella della detenzione femminile è certamente la storia di una minoranza: rispetto agli uomini, infatti, sono poche le donne detenute, internate, trattenute. Questa loro presenza marginale non deve, tuttavia, far dimenticare che esse sono portatrici di esigenze specifiche, che attendono risposte adeguate. Di questo pare essere consapevole, del resto, la Direzione generale dei detenuti e del trattamento che, nel 2008, ha diffuso una circolare contenente uno schema di regolamento interno-tipo per gli istituti femminili e le sezioni femminili che ospitano detenute comuni, con l’evidente obiettivo di cogliere e tutelare il valore della “differenza di genere”, declinando il senso dell’esecuzione della pena secondo codici, linguaggi e significati congruenti con la specificità dell’identità femminile, in maniera da evitare l’innescarsi di ulteriori meccanismi di marginalizzazione a discapito delle donne detenute.

Il quadro che emerge rispetto alla delicata questione della detenzione femminile è chiaro: la storica marginalità del fenomeno della delittuosità femminile ha fatto sì che la condizione delle donne in carcere sia stata per lungo tempo – e, per certi versi, ancora oggi – considerata di scarso interesse, anche tra gli addetti ai lavori, e perciò destinataria di pochissime risorse economiche e culturali, nonostante i costi, non solo personali ma soprattutto sociali, dell’incarcerazione femminile siano evidentemente più gravosi.

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