Il carcere deve rieducare, non punire

di Pietro Chiaro, Il Domani, 12 giugno 2021

Dopo aver ascoltato qualche sera fa il procuratore Gratteri alla trasmissione curata dalla Gruber, mi sono ancora più convinto del ritardo culturale che ci accompagna sul versante carcerario, del quale, non a caso, non si parla più da tempo. Nemmeno è dato, tra l’altro, di sapere a che punto sono le indagini sulle rivolte avvenute l’anno scorso nelle carceri di Pisa e Santa Maria Capua Vetere, con le morti poco chiare di alcuni detenuti, conseguenti alle stesse.

Accennavo al deficit di approfondimento cognitivo del problema del carcere e della sua funzione, e reale necessità. Ritardo culturale che non permette l’adeguata comprensione della problematica correlata alla natura e all’entità della pena, e alla sua funzione in rapporto al trattamento e alla sorte del detenuto. Ebbene, a differenza del messaggio che sembra pervenire dal pur ottimo magistrato in questione – sotto scorta da moltissimi anni, per la costante e rigorosa lotta alla malavita calabrese – bisogna insistere nel ricordare ai cittadini che la pena, più che alla funzione vendicativa, racchiusa in quella punitiva e retributiva, ha una finalità essenzialmente rieducativa e recuperativa (così come previsto dall’art. 27 della Costituzione).

La privazione della libertà, che non va affidata necessariamente alla restrizione in quattro mura, da adottare come extrema ratio, ma altresì alle previste pene alternative, deve avere come ottica il recupero alla società del soggetto-detenuto, che un giorno dovrà in essa rientrare, libero da ogni vincolo. Resto convinto se si insiste su questo messaggio, si riuscirà a far comprendere perché il carcere ha una funzione falsa e puramente ideologica e perché il “fine pena mai” è incompatibile con il rispetto della dignità della persona, insita anche nel peggiore assassino.

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