I diritti relativi alla sfera religiosa

di Ilaria Boiano, Università di Roma Tre

La religione rientra negli elementi del trattamento con una valenza rieducativa e di risocializzazione, ma sicuramente in chiave molto lontana dalla disciplina previgente, in base alla quale la religiosità del reo veniva considerata un segno di ravvedimento inequivocabile e piegava la religione, in particolare quella cattolica, a mezzo di disciplina di rieducazione morale del recluso, ignorando invece i profili di libertà di religione e di coscienza: lo Stato non si limitava ad imporre al soggetto recluso l’obbligo di professare la fede religiosa, ma limitava anche la libertà di professare una fede religiosa diversa da quella cattolica subordinata al limite temporale di una dichiarazione spontanea di appartenenza ad altra confessione resa al momento dell’ingresso in istituto e subordinato alla volontà del direttore del carcere. I cappellani, rappresentanti della religione cattolica presso gli istituti di pena, furono inseriti dal fascismo come componenti strutturali della gerarchia dell’amministrazione carceraria.

Nonostante l’entrata in vigore della Costituzione, continuarono ad essere applicati il codice penale del 1930 e il regolamento carcerario del 1931, la rottura con i quali fu esplicitata solo dal legislatore penitenziario del 1975 che all’articolo 26 dell’ordinamento penitenziario racchiude le tre dimensioni della libertà religiosa:

  • la libertà per il detenuto di professare la propria fede religiosa così come quella di non professarne alcuno;
  • il diritto di istruirsi nella sua fede religiosa;
  • il diritto di praticarne il culto, espungendo la religione dai parametri di controllo della condotta dei detenuti.

Questa impostazione riflette i principi costituzionali espressi dagli articoli 8 e 19 della Costituzione e si pone in linea con i principi sovranazionali che affermano la dimensione pluralistica della società democratica.

Oltre al ministro di culto cattolico, il cappellano, è consentito l’accesso ai ministri di altri culti, perché consentono l’esercizio della libertà di pratica del culto religioso attraverso la partecipazione alle funzioni religiose sia perché attuano il diritto di istruirsi nella propria fede che impone all’amministrazione penitenziaria di garantire sotto il profilo logistico e operativo le modalità per accedere all’istruzione secondo i dettami di ciascun credo religioso e ciò anche per coloro che sono sottoposti a regimi detentivi speciali di cui all’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario. Questi ultimi possono ottenere l’autorizzazione ad incontrare permanentemente un ministro di culto per lo studio e approfondimento dei testi biblici[1].

I ministri di culto delle altre confessioni religiose possono essere autorizzati su richiesta dei detenuti a fare ingresso all’interno degli istituti di pena per dare assistenza e celebrare i riti, ma bisogna distinguere tra le confessioni che hanno ottenuto negli anni un’intesa con lo Stato italiano e quelle che sono regolate dalla legge sui culti ammessi.

L’articolo 58 reg. esec. consente l’esposizione di simboli immagini religiose negli spazi di appartenenza anche se in condivisione a condizione che ciò non sia in contrasto con le esigenze di ordine di ordine e non arrechino offesa alla religione altrui, analoghe limitazioni sono previste per la pratica del culto che non può esprimersi in comportamenti molesti per la comunità.

L’amministrazione penitenziaria è tenuta a mettere a disposizione i locali necessari per la pratica del culto e deve garantire che il vitto erogato tenga conto delle prescrizioni e dei divieti alimentari previsti da ciascuna fede religiosa (articolo 9 ord. penit.).

Questa possibilità è stata introdotta dal legislatore del 2018 nell’ambito delle misure volte a prevenire la radicalizzazione e il proselitismo e per contrastare attività preparatorie di reati di matrice terroristica seguendo le indicazioni elaborate nell’ambito di un progetto condotto da Austria, Francia e Germania, che con il finanziamento della Commissione europea hanno definito una serie di indicatori per rilevare la radicalizzazione religiosa della popolazione detenute.

Il modello fornito dalla Commissione di studio costituita all’interno del progetto sopra menzionato pone il problema del confine tra pratiche di culto legittimamente seguite e la loro valorizzazione in termini di indicatori di radicalizzazione e, quindi, di pericolo di commissione di reati di matrice terroristica. Tenuto conto delle problematiche derivanti dal modello proposto, il tema è stato oggetto di approfondimento da parte di una Commissione di studio sul fenomeno della radicalizzazione dell’estremismo jihadista, Verso un approccio italiano alla prevenzione della radicalizzazione, guidata da Lorenzo Vidino e istituita presso la presidenza del Consiglio dei Ministri nel settembre del 2016.

Foto di Wendy van Zyl da Pexels


[1] Cass., sezione VIII, 22 marzo 2011, n. 8988.

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