I diritti dei detenuti lavoratori

di Ilaria Boiano, Università di Roma Tre

Tra gli elementi del trattamento penitenziario (articolo 15 ord. penit.) il lavoro rappresenta sicuramente il fulcro intorno al quale il legislatore ha costruito il sistema volto al reinserimento sociale del detenuto, come previsto anche dalla regola 26 delle Regole penitenziarie europee, obiettivo del progetto che prende avvio con l’istruzione e le attività formative professionali.

Il lavoro, quindi, è garantito a tutta la popolazione detenuta in termini di diritto fondamentale, superando la logica punitiva sottesa al lavoro carcerario prima della riforma del 1975: rimane l’obbligatorietà del lavoro penitenziario, ma vi si riconosce una funzione completamente diversa rispetto a quella afflittiva perseguita dalla legislazione previgente, in quanto l’articolo 20 ord. penit. come modificato dalla riforma del 2018, ha chiarito espressamente che il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è sempre remunerato.

Se le esigenze organizzative, disciplinari e di sicurezza giustificano delle deroghe rispetto alla regolamentazione del rapporto di lavoro in generale, tuttavia il contenuto minimo di tutela che secondo la Costituzione deve assistere ogni rapporto di lavoro subordinato non può mai essere affievolito[1].

La regolamentazione contrattuale del lavoro penitenziario può differire dal lavoro libero solo se ciò risulta necessario per mantenere integre le modalità essenziali di esecuzione della pena, mentre si ritiene illegittima ogni ingiustificata discriminazione tra i detenuti e gli altri cittadini[2].

La natura giuridica del rapporto di lavoro è oggetto di intenso dibattito dottrinale: secondo un primo orientamento, il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore detenuto si inquadra nei termini di un rapporto di diritto pubblico, poiché il lavoro penitenziario è obbligatorio e in questo caso competente per le controversie sarebbe il giudice amministrativo. A questa tesi si contrappone l’impostazione che invece ritiene sussistente una subordinazione connotata da profili di specialità di natura pubblicistica, natura che attribuisce la competenza al giudice del lavoro[3].

La corte costituzionale ha confermato l’impostazione della tesi privatistica ritenendo competente il giudice amministrativo solo nel caso di rapporti di lavoro instaurati con enti pubblici non rinvenendo ragione di distinguere tra il rapporto di lavoro subordinato normale e quello instaurato e svolto in regime di reclusione[4].

Al lavoratore, dunque, è riconosciuto il diritto al lavoro, il diritto ad una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del lavoro prestato, il diritto al riposo settimanale e alle ferie annuali retribuite e la determinazione della durata massima della giornata lavorativa. Questa elencazione trova conferma al terzo comma dell’articolo 20 ord. penit. che chiarisce come l’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quanto più possibile quelli del lavoro nella società libera.

Si ritiene superata, inoltre,almeno sotto il punto di vista formale, la differenza tra il trattamento dei condannati e degli internati grazie all’articolo 21ord. penit. che ha ampliato i soggetti ammessi al lavoro attraverso un riferimento esplicito alle strutture ospitanti e quindi non solo agli istituti penitenziari ma anche le nuove residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza.

Il lavoro può essere svolto secondo le modalità coerenti con l’esecuzione della pena e la prima grande distinzione è tra lavoro all’interno dell’istituto penitenziario e il lavoro all’esterno.

Per il lavoro all’interno degli istituti di pena sono previste modalità di accesso che garantiscono l’equo accesso al lavoro, in base a parametri di priorità: l’anzianità di disoccupazione, i carichi familiari, la preparazione professionale, l’attività pregressa e quella che il detenuto dovrà svolgere dopo la dimissione. In base a questi parametri sono stilate delle graduatorie (una lista generica e una specifica per mestiere), formate da una commissione integrata dal dirigente sanitario con riguardo all’accesso al lavoro delle persone con disabilità, dal funzionario dell’ufficio per l’esecuzione penale esterna, dalla presenza del direttore del centro per l’impiego o di un suo delegato con la possibilità di partecipazione alla riunione anche di un rappresentante dei detenuti e internati. Il direttore dell’istituto di pena ha l’obbligo di assicurare in via generale imparzialità e trasparenza delle assegnazioni nonché derogare ai criteri in caso di esigenze di sicurezza.

Ulteriore compito della commissione è quello di individuare le attività o i posti di lavoro ai quali per motivi di sicurezza sono assegnati i detenuti e gli internati per stabilire poi criteri per l’avvicendamento dei posti di lavoro alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria.

Il lavoro il lavoro inframurario ricomprende sia le attività lavorative svolte alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria gestite dall’amministrazione sia le lavorazioni organizzate e gestite da imprese pubbliche e private.

Nel lavoro intramurario si inseriscono le attività diverse dal lavoro cosiddetto ordinario organizzate dalla direzione dell’istituto penitenziario in modo uniforme alle linee programmatiche dei provveditorati imponendo l’utilizzo delle lavorazioni per le forniture di vestiario corredo arredi e quanto necessario per il funzionamento degli istituti potendo rivolgersi ad imprese esterne solo ove sussista una significativa convenienza economica.

 Si stabilisce analogamente che nel soddisfacimento delle commesse la priorità deve essere riservata all’amministrazione penitenziaria rispetto ad altre amministrazioni statali e enti pubblici e privati, ma in quest’ultima ipotesi è previsto che il privato può fornire personale tecnico attrezzature e materie.

Il lavoro penitenziario può essere svolto anche in forma autonoma o secondo lo schema del lavoro a domicilio nel caso della presenza di peculiari attitudini del detenuto in possesso di capacità artigiane, culturali, artistiche. È possibile, inoltre, che il lavoro dei detenuti e degli internati possa essere impiegato per attività di produzione di beni di destinare all’autoconsumo anche in alternativa alla normale attività lavorativa.

Nella prospettiva di sottolineare in concreto la centralità della formazione e del lavoro quali elementi del trattamento penitenziario, è previsto che gli introiti delle lavorazioni penitenziarie destinati al bilancio dello Stato debbano essere accantonati per finanziare lo sviluppo della formazione professionale del lavoro dei detenuti.

Gli organi centrali e territoriali dell’amministrazione penitenziaria sono autorizzati a stipulare convenzioni di inserimento lavorativo con soggetti pubblici o privati cooperative sociali interessati a fornire ai detenuti o internati possibilità lavorative.

Si prevede ai sensi dell’articolo 25 ter ordinamento penitenziario un servizio di assistenza anche attraverso apposite convenzioni con enti pubblici e privati per il conseguimento delle prestazioni assistenziali e previdenziali.

Per quanto riguarda la disciplina della remunerazione dei detenuti e degli internati la riforma penitenziaria più recente ha stabilito la quantificazione in relazione alla quantità e qualità del lavoro prestato in misura fissa pari a due terzi del trattamento economico dei contratti collettivi, un trattamento economico deteriore del lavoratore detenuto sotto il profilo economico che per anni però superato il vaglio di legittimità della corte costituzionale che ha sempre escluso un contrasto con gli articoli 3 e 36 della costituzione, sebbene la dottrina ritenga tale discrepanza contrastante con la finalità rieducativa della pena, è stata comunque circoscritta soltanto al lavoro infra murario[5].

La modalità di lavoro extra muraria disciplinata dall’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario consiste nella possibilità che i detenuti e gli internati siano assegnati ad un’attività lavorativa che si svolge all’esterno dell’istituto penitenziario: questa opportunità assume una forte valenza rieducativa e, sebbene sia contemperata con l’esigenza di sicurezza, la dottrina è giunta ad equiparare tale forma di lavoro alle misure alternative alla detenzione[6].

L’attività di lavoro extra muraria può essere esercitata alle dipendenze di imprese pubbliche, imprese private, ma può trattarsi anche di lavoro autonomo.

Peraltro, i condannati per uno dei reati cosiddetti ostativi possono essere ammessi al lavoro esterno solo dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena e comunque non oltre cinque anni; per i soggetti condannati alla pena dell’ergastolo l’ammissione può avvenire dopo l’espiazione di 10 anni. L’ammissione al lavoro extra murario è subordinata al provvedimento di ammissione emesso dal direttore dell’istituto che ne chiede l’approvazione al magistrato di sorveglianza o all’autorità procedente se si tratta di un imputato.

Il provvedimento autorizzativo contiene le prescrizioni a cui il lavoratore detenuto dovrà attenersi nel tempo che trascorrerà all’esterno dell’istituto di pena nonché gli orari stabiliti per l’uscita e per il rientro. Il rapporto di lavoro si instaura tra detenuto lavoratore e datore di lavoro che dovrà versare la retribuzione direttamente alla direzione dell’istituto per consentire i prelievi previsti dall’articolo 24 dell’ordinamento penitenziario.

Foto di Dominika Roseclay da Pexels


[1] Corte costituzionale, sent. 10 maggio 2001, n. 158.

[2] Corte costituzionale, sent. 23 ottobre 2006, n. 341.

[3] Di Gennaro G., Breda R., La Greca G., Ordinamento penitenziario, Giuffrè, 1997, p.151.

[4] Corte costituzionale, sent. 6 aprile 1984, n. 103.

[5] Barbera M., “Lavoro carcerario”, in Digesto Privato – sez. commerciale, 1992, VIII, pp.212-225.

[6] Pavarini M., Codice commentato dell’esecuzione penale, Utet, 2002, p. 219.

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