Gli infermieri nei penitenziari, operatori dimenticati

di Maria Luisa Astadi, infermieristicamente.it, 24 maggio 2021

Il 92,65% degli infermieri che lavorano nei penitenziari sono risultati esposti al rischio di contagio da Covid-19, essendo venuti a contatto direttamente con detenuti positivi.

Mentre la diffusione del Covid, è stata ampiamento studiata in ambito ospedaliero, scarsamente indagato è stato il mondo delle carceri, che per antonomasia sono sensibili alla rapida diffusione delle epidemie: i fattori legati all’ambiente ed alla particolare tipologia di paziente, possono accelerare questo processo ed un intervento sanitario precoce rappresenta un elemento focale per contenere e prevenire le malattie infettive (European Centre for Disease 2011; Montoya-Barthelemy et al., 2020).

Il sovraffollamento, la scarsa ventilazione, gli spazi ristretti e chiusi, caratterizzano il particolare ambiente in cui il personale penitenziario si ritrova a lavorare e che, indubbiamente, li espone al contagio. L’infermiere è la figura che entra più frequentemente a contatto con i detenuti per garantire un’assistenza di qualità, anche quando le possibilità di cura sono compro­messe. È anche colui che corre quotidianamente il rischio nello svolgimento del proprio lavoro,

Chi è l’infermiere che lavora nei penitenziari? – La presenza del personale sanitario negli Istituti Penitenziari viene prevista per la prima volta nel 1931 dal Regolamento Carcerario scaturito dal Regio Decreto n°787 del 18.06.1931. Solo nel 1970 con la Legge n°740, si inizia a delineare una sommaria disciplina dei rapporti di lavoro del personale sanitario che rappresenta la radice iniziale del servizio sanitario e della continuità assistenziale all’interno degli Istituti di pena.

È questo il periodo in cui l’assistenza e la tutela della salute era affidata e gestita dalle Casse Mutue e dalle Ipab, fino al 1978 quando con la Legge n° 833 fu istituito il SSN, unico organismo pubblico preposto alla tutela del diritto costituzionale alla salute, mentre ancora la Sanità Penitenziaria rimane separata e sotto il controllo della Amministrazione Penitenziaria.

Con la legge di riforma dell’Ordinamento Penitenziario ossia la n°354/75 finalmente viene superato il Regolamento applicato sin dal 1931 e come disposto dall’art. 11, le Amministrazioni Penitenziarie hanno facoltà di avvalersi dei pubblici servizi, pertanto, vengono introdotti il servizio di psichiatria e il medico specialista. In questa fase la tutela della salute così come il personale dipende dal Ministero di Giustizia tramite il D.A.P. (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria). In sostanza si dovrà attendere la Circolare n° 3337/5787 del 1992 da parte del Ministero di Giustizia, la quale rappresenta l’embrione iniziale di un percorso e un approccio integrativo nel considerare la garanzia delle cure e della sicurezza, in detta circolare, si stabilisce che in ogni carcere debbano essere presenti due aree sanitarie (medica-infermieristica) ad integrazione con quella educativa.

Dal 1 gennaio 2000, così come disposto dal D.Lgs. 230/99 inizia un periodo di sperimentazione da attuarsi in alcune regioni, sia in ordine alla cura e l’assistenza dei detenuti tossicodipendenti, sia per il trasferimento di specifiche funzioni sanitarie, tale periodo risulterà pieno di difficoltà soprattutto per la resistenza di tanti operatori della sanità, tra l’altro, a complicare tale percorso, in maniera indiretta, concorre anche la riforma Costituzionale del Titolo V del 18.10.2001, che trasferisce alle Regioni tutte le competenze in tema di salute, ma lascia ancora il permanere della Sanità Penitenziaria sotto il controllo del Ministero della Giustizia.

Inizia così un settennato nel quale, con Decreto Interministeriale del 16.05.02 viene istituita dapprima la c.d. Commissione Tinebra, una commissione di studio per indicare un modello organizzativo della Sanità Penitenziaria, lavori che saranno conclusi solo parzialmente nel 2005, con risultati poco convincenti, poi nel biennio 2005/07 lo Stato e le Regioni mettono in campo una commissione tecnica con lo scopo di redigere le Linee Guida e una proposta di legge per il definitivo passaggio di competenze in ambito di Sanità Penitenziaria dal Ministero della Giustizia a quello dalla Salute. Con il Dpcm del 1 aprile 2008, finalmente in tema di Sanità Penitenziaria le due Istituzioni coinvolte si devono e si possono confrontare in modo paritetico, ed il personale sanitario che ivi opera, finora obbligati a rispettare solo l’Ordinamento Penitenziario, sono riconosciuti non come singoli professionisti ma come figure professionali organizzate ed integrate con la rete assistenziale territoriale.

In uno studio, pubblicato sulla rivista Professioni Infermieristiche, è stato analizzato e valutato il rischio di esposizione al Covid-19 negli infermieri operanti nel contesto carcerario italiano. Il gruppo di ricerca è stato costituito da infermieri rappresentanti del Corso di Laurea in Infermieristica sede Policlinico Umberto I di Roma dell’Università di Roma La Sapienza e del Corso di Laurea in Infermieristica sede Ospedale S. Paolo dell’Università degli Studi di Milano ha arruolato un campione di convenienza composto da infermieri iscritti alla Simspe Onlus (Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria), operanti in qualsiasi struttura carceraria italiana al momento dell’indagine. Hanno partecipato all’indagine 204 infermieri di area penitenziaria italiana sui 414 iscritti a Simspe Onlus (tasso di risposta pari al 49.27%). 96 erano uomini (47.06%) e 108 le donne (52.94%).

La quasi totalità del campione (n=199, 97.55%) ha riferito di essere a venuto a conoscenza della presenza di almeno un paziente positivo al Covid-19 accertato all’interno della propria realtà lavorativa; oltre la metà (n= 103, 50.49%) ha inoltre riportato essere a conoscenza della presenza di almeno un altro soggetto positivo, 65 (31.86%) non hanno saputo rispondere, 16 (7.84%) hanno invece riferito di essere a conoscenza di un unico caso. Cento ottantacinque (90.69%) hanno fornito assistenza diretta ad un soggetto positivo; di questi 129 (69.73) si sono trovati almeno una volta ad una distanza inferiore ad 1 metro dalla persona mentre 104 (56.21%) in situazioni assistenziali che hanno generato la produ­zione di aerosol da parte dell’assistito. Centosedici (56.86%) infermieri sono inoltre entrati direttamente in contatto con l’ambiente in cui è stato visitato o assistito un paziente positivo al Covid-19, prima della sanificazione dello stesso.

Aderenza alle norme di sicurezza per la prevenzione del contagio – Il numero di infermieri che ha rispettato “sempre” i comportamenti descritti non differiva significativamente (p >0.05 per ogni confronto) nelle situazioni che preve­devano o meno il contatto con aerosol. 55 infermieri (26.96%) hanno riportato di aver avuto incidenti caratterizzati dal contatto inavvertito con fluidi corporei o secrezioni respiratorie durante una visita sanitaria/prestazione con un paziente Covid-19: nello specifico 20 hanno riportato di essere entrati in contatto con schizzi di fluidi biologici/secrezioni respira­torie nelle mucose del naso o della bocca, 16 hanno ripor­tato di essersi punti/tagliati con un materiale contami­nato con fluidi biologici/secrezioni respiratorie mentre 11 sono entrati in contatto con schizzi di fluidi biologici secrezioni respiratorie su ferite o su cute non integra.

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