di Xenia Chiaramonte, ICI Berlin
FOTO DI FRANCESCA GABRIELE
Vi presentiamo in questa sezione tre casi di “insuccesso”, in cui i processi di criminalizzazione, segnati già da gogna mediatica pre-processuale, si ripetono a carico del soggetto che ha scontato la pena e tenta di reinserirsi socialmente. Nel linguaggio della criminologia critica si tratta di due dimensioni, quella della criminalizzazione primaria (che si pone a livello legislativo) e della criminalizzazione secondaria (che si pone in fase di esecuzione della pena e a seguire).
È connaturata al diritto penale un’operazione selettiva, sia nella fase primaria, cioè quella in cui si formano le fattispecie generali e astratte di reato, sia in fase applicativa ed esecutiva, in cui quelle nozioni sono azionate. Non si punisce ogni condotta allo stesso modo, né tanto meno, ancora prima, è a partire da criteri puramente oggettivi che si sceglie se perseguirla o meno. La criminologia critica si fonda sul disvelamento della presunta naturalità del reato, e della azionabilità da parte di un operatore del diritto. Come scriveva Durkheim, il reato è “semplicemente” ciò che come tale viene definito, e dunque sanzionato dagli uomini. Ciò non avviene per natura, ma è frutto della convenzione stabilitasi fra gli uomini.
Il primo caso di questa seconda selezione è quello di Giovanni Scattone, il secondo è quello di Doina Matei mentre il terzo è un caso più ampio che chiama in causa le cosiddette “scarcerazioni facili” durante la (ancora) corrente pandemia. In generale, il nostro intento è stato quello di indagare l’ampio processo di criminalizzazione, nel quale si inseriscono anche i media, creando anzitempo pregiudizi ed etichette, che inevitabilmente rischiano poi di interferire col giudizio sul soggetto ancora da venire, includendovi anche la fase processuale e poi quella che fa seguito alla decisione giudiziale e al periodo detentivo, laddove si pone per il soggetto, che ha già scontato la sua pena, la delicata questione del suo reinserimento nel mondo sociale.
Inevitabile che la trattazione di queste tematiche tocchi il tema dell’uso populistico del diritto penale, il ruolo dei media ed eventualmente dell’opinione pubblica nella formazione delle etichette che si affibbiano al soggetto più debole del processo penale, il quale – vale la pena di ricordarlo – è l’imputato, poiché va incontro alla potenziale restrizione della sua libertà, in forza di una potestà punitiva delegata dello Stato. L’uso populistico del diritto penale tende a oscurare questa sproporzione di potere e a volere porre al centro la vittima, con le inevitabili ricadute in termini di soggettivismo ed emotività, che risultano inadeguate condizioni per un equo giudizio.
Il primo caso di questa seconda selezione è quello di Giovanni Scattone.
Nome: Giovanni Scattone
Anno dei fatti: 1997
Condanna: omicidio colposo
Pena: 5 anni e quattro mesi; servizi sociali
Vittima: Marta Russo
Di sicuro, nella vicenda che vede condannato Giovanni Scattone, c’è solo che è morta una persona, la studentessa di giurisprudenza ventiduenne Marta Russo, dentro l’Università di Roma La Sapienza. Era il 9 maggio 1997, quando un colpo di pistola colpì mortalmente la giovane donna che, dopo alcuni giorni di coma, morirà in ospedale. Iniziano le indagini, si aprono diverse piste, persino quella terroristica. La perizia balistica richiesta dalla Procura porta a pensare che il colpo sia partito da uno degli istituti che si affacciano sul cortile, dove è stata colpita la ragazza. Le ricerche porteranno a individuare – salvo poi l’affiorare di dubbi consistenti a riguardo[1] – un certo istituto, quello di Filosofia del diritto, Istituto 6, come punto di partenza del colpo d’arma da fuoco. Anche se successivamente non vi sarà unanime concordanza su questo cruciale dato, questa è la pista investigativa ritenuta valida anche nel prosieguo.
D’altronde, non doveva essere facile cambiare radicalmente scenario, data la forza della pressione mediatica. Giornali, telegiornali, approfondimenti serali e talk show non fanno che parlare di questo omicidio, esplorando ogni dettaglio e, soprattutto, finendo per far iniziare fuori delle aule di tribunale un vero e proprio processo. In casi come questo, si tende a costruisce una ipotetica necessità sociale di pronta risoluzione del caso e un dovere di difesa della società dal reo mediante le istituzioni; di qui, si esercita mediaticamente una pressione, che costruisce questa necessità, imponendola: trovare il colpevole diventa necessaria purificazione della società dal delitto e dal delinquente.
A distanza di vent’anni le vicende non sono affatto chiare, ma per via della morbosità con cui si è guardato a questo caso, al colpevole doveva essere presto dato un volto e un nome[2]. Il suo nome è Giovanni Scattone. Condannato, con prove molto deboli, se non inconsistenti, per omicidio colposo aggravato. È uno studioso già con diverse pubblicazioni al momento delle indagini, Scattone, il quale scriveva che “La discussione critica (o dibattito razionale), com’è intesa da Popper, appare per certi aspetti simile a un dibattimento all’interno di un processo”, nel suo Due Filosofie della libertà . Si immaginava – in linea con un approccio filosofico-giuridico di matrice analitica – che il processo penale a suo carico si sarebbe mosso come un dibattito – il dibattimento per l’appunto – razionale e critico. Anche Salvatore Ferraro, condannato per favoreggiamento, incredulo, scrive nel suo memoriale: “Credevo che fare un processo significasse mettere in moto un circuito di valutazione di fatti concreti, di ponderazione neutrale degli elementi al fine di accertare la verità”. La realtà, però, somiglia più a un romanzo di Kafka.
Le indagini si restringono presto e vengono rivolte esclusivamente a chi era presente presso l’istituto di filosofia del diritto all’ora dell’omicidio. Attorno a quel lasso di tempo vennero fatte due telefonate da quella stanza, entrambe da parte dell’allora dottoranda Maria Chiara Lipari. Interrogata dai magistrati, la donna sostiene che non era presente nessuno nell’aula 6. In seguito fa i nomi di due assistenti, della segretaria Gabriella Alletto e – come ricordo “a livello subliminale” – dell’usciere Francesco Liparota. La testimonianza della Lipari è farraginosa, confusa e contraddittoria.
Quanto alla Alletto, la storia si fa ancora più triste nonché psicologicamente violenta. La donna viene interrogata ben 13 volte, negando, ogni volta, di essersi trovata presso l’aula dell’istituto 6 all’ora suggerita dai magistrati. Tuttavia, a seguito di un interrogatorio di dodici ore (di cui solo le ultime tre verbalizzate), la donna afferma che nella stanza c’erano Liparota e due giovani assistenti, Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, e che era stato Scattone a sparare il colpo che aveva ferito alla nuca Marta Russo. Emerse che erano stati usati metodi intimidatori nei confronti della Alletto e che, quindi, quelle informazioni le erano state estorte.
Lei lo aveva fatto principalmente per salvare se stessa, date le minacce ricevute:
ORM Non è stata lei: chi è stato?
ALL Io non lo so. Io sinceramente non lo so
ORM Continua a non saperlo, e continua a dire che non stava in sala assistenti, va bene?
ALL Ma che… a me me prenderanno pe’ scema, pe’ fissata a me…
ORM No, la prendere… la prenderemo per omicida!
ALL Io non lo so quello che devo fa’
ORM La prenderemo per omicida
ALL Non lo so più quello che devo fa’ [piange]
ORM Deve dire la verità
Ispettore Luigi Di Mauro, cognato di Alletto (DI MAURO) Non devi coprire a nessuno, non devi coprire a nessuno
ORM Deve dire la verità, deve dire la verità
ALL Non lo so, Gino…
DI MAURO Eh, non lo sai, le carte sono contro di te.
ALL Lo so, ma io non ci stavo[3].
Il 14 giugno 1997 vengono tratti in arresto sia Scattone che Ferraro. I media avevano già provveduto a dipingere i due soggetti come dei tipi piuttosto strani, che avevano provato a mettere in pratica certe bieche teorie del delitto perfetto – su cui, si disse, avevano tenuto una lezione universitaria. Per sopperire alla carenza di movente, si diede voce alle più mediocri ricostruzioni psicologiche, che fecero dei due studiosi due “spostati”; per sopperire al mancato ritrovamento della pistola, si fece silenzio sull’argomento. Anche le tracce di polvere da sparo sono state oggetto di dubbio nel corso del processo.
Nella sentenza di primo grado si dice che Scattone sparò per errore un colpo di pistola. La condanna fu confermata in appello, salvo poi venire annullata dalla Corte di Cassazione per “manifesta illogicità”. Si ebbe così un ulteriore processo d’appello, che confermò la sentenza di primo grado. Dato che l’arma non è mai stata rinvenuta, nel 2003 la Corte di Cassazione conferma la sentenza, ma espunge la condanna per possesso illegale di arma da fuoco.
Come insegna Taruffo, il giudizio di fatto che il giudice deve compiere per fondare la propria decisione su un reale convincimento pone la questione gnoseologica. Come arriva a questa verità? Come può conoscere? E cosa può conoscere?[4] Il processo a Scattone, più che basarsi su una ricostruzione dei fatti quanto più possibile tendente al vero, pare fondato sulle percezioni e sull’induzione delle stesse nella memoria di soggetti le cui affermazioni vacillano lungo il corso di tutto il procedimento penale. D’altronde, “la ricerca sulla percezione della verità […] lascia forti dubbi circa l’esattezza di una risposta affermativa” del tipo ‘si, ho visto qualcuno, una persona, era un uomo e lo identifico con…’[5]. Sembra lecito pensare che, pur di trovare una soluzione a un processo quotidianamente sotto i riflettori, potere giudiziario e logiche mediatiche finiscano per funzionare similmente: fare notizia, fornire interpretazioni – se non illazioni – accusare e “risolvere il caso”.
Il ruolo della politica, invece, qual è stato? Un ruolo decisamente attivo a giudicare dalla cronaca di Giovanni Valentini sulla Repubblica del 14 marzo 1999: “la pressione dell’opinione pubblica sugli inquirenti aumenta di giorno in giorno: mentre si celebrano i funerali di Marta Russo, a cui partecipa una folla di diecimila persone, sull’assassinio all’ Università interviene il presidente del Consiglio, Romano Prodi, e anche il Papa denuncia un ‘clima di odio’. Evidentemente, un’inchiesta su un caso così clamoroso non si può archiviare con una denuncia contro ignoti, un colpevole si deve trovare a ogni costo, il ‘moloch’ dell’informazione reclama il nome dell’assassino”. La logica accusatoria tipica dei pubblici ministeri tende, allora, a espandersi e divenire caratteristica condivisa con gli attori politici e con i media.
La gogna mediatica, subita prima e durante il processo, è proseguita una volta che Giovanni Scattone è uscito dal carcere. Nel 2004 si conclude la detenzione e inizia un percorso che porta il condannato a svolgere il lavoro di riabilitazione dei disabili presso i servizi sociali. Finisce anche il periodo di interdizione dai pubblici uffici.
Ammesso all’insegnamento in un liceo romano nel 2011, è stato oggetto di una fitta campagna di odio, che lo voleva ancora macchiato dall’onta di una condanna (ampiamente scontata), e, di certo, soggetto altamente inadatto al ruolo di educatore. “Se la coscienza mi dice di poter insegnare, la mancanza di serenità mi induce a rinunciare all’incarico” – rende noto Scattone che aggiunge: “La mia innocenza, sempre gridata è pari al rispetto nei confronti del dolore della famiglia Russo. Ho rispettato, pur non condividendola, la sentenza di condanna. Quella stessa sentenza mi consentiva, tuttavia, di insegnare. Ed allora sarebbe stato da Paese civile rispettare la sentenza nella sua interezza”.
“Insegna poi filosofia nel liceo ‘Primo Levi’, e successivamente è supplente di materie umanistiche in altri licei. Ancora polemiche: studenti di estrema destra inscenano proteste e contestazioni; altri studenti e genitori scendono in sua difesa. Nel 2015 ottiene una cattedra in psicologia all’istituto ‘Einaudi’ di Roma, diventa insegnante di ruolo, dopo aver superato nel 2012 il relativo concorso a cattedra” – scrive Valter Vecellio.
Pare proprio che “per Giovanni Scattone il tribunale ha detto 5 anni… il popolo ha detto ergastolo”.
Questa vicenda pone diverse questioni in merito al senso, alla funzione che si dà alla pena, e alla mancanza da parte dell’opinione pubblica e, soprattutto dei media, di una visione civica che consenta di vedere un “successo” nel reinserimento sociale del condannato. Questa forma di populismo, chiamata populismo penale, ha diverse caratteristiche. Di solito implica una distorsione delle informazioni, dei dati, e una loro riduzione semplicistica in sistemi binari. Il condannato è colpevole sine die, anche se “paga” quanto il potere giudiziario, con una sentenza giusta o meno, ha stabilito che vada pagato. Ecco che si presentano al contempo – scrive Manuel Anselmi – “comportamenti collettivi e rappresentazioni sociali diffusi che contribuiscono all’alterazione di contenuti relativi alla giustizia con una finalità politica. Sotto questa larga etichetta possiamo far rientrare [dal]la manipolazione dei dati sulla criminalità nelle campagne elettorali […], le campagne di “tolleranza zero” […], alla resistenza tutta italiana a introdurre il reato di tortura, alla criminalizzazione dello straniero, ma anche alla glamourizzazione dei magistrati e quello che in Italia siamo soliti chiamare in modo vago e troppo spesso assolutorio ‘giustizialismo’. Il populismo penale esercita una costante azione di delegittimazione sociale delle istituzioni in materia di giustizia, indebolendo di fatto ciò che definiamo lo stato di diritto”.
In ultimo, andrebbe rilevato che una morbosa attenzione alla vittima, seppur comprensibile, rischia di oscurare che il soggetto più debole del processo penale rimane comunque l’imputato, che vive una limitazione della sua libertà e un, seppur regolato, conflitto con la potestà punitiva dello Stato. Dare centralità alla vittima porta, al contrario, ad attivare la dinamica del consenso, una dinamica che oggi sempre più pare passare dal politico al giudiziario e dal giudiziario al politico per assumere le forme di un vero e proprio populismo penale.
Xenia Chiaramonte
Università di Roma Tre
Riferimenti in ordine di menzione:
https://www.ilfoglio.it/cronache/2017/05/14/news/marta-russo-di-sicuro-c-e-solo-che-e-morta-134331/
https://www.ibs.it/due-filosofie-della-liberta-karl-libro-giovanni-scattone/e/9788849803655
https://www.ibs.it/sociologia-di-delitto-media-giustizia-libro-marco-catino/e/9788887995176
Link utili:
Processo completo, registrazioni disponibili presso il sito di Radio Radicale al seguente link: https://www.radioradicale.it/processi/695/processo-per-lomicidio-di-marta-russo-scattone-e-altri?page=1
Commenti sul caso su Ristretti Orizzonti: http://www.ristretti.org/index.php?searchword=scattone&ordering=&searchphrase=all&Itemid=1&option=com_search
Dossier su Repubblica: https://www.repubblica.it/online/fatti/marta/liparota/liparota.html
[1] Tre esperti, nominati dalla Corte d’Assise, due anni dopo smentirono la validità della perizia, ma la Procura rimase legata al teorema precedente.
[2] A studiare approfonditamente la copertura mediatica del caso è stato Marco Catino, in Sociologia di un delitto Media, giustizia e opinione pubblica nel caso Marta Russo.
[3] Trascrizione a cura del Comitato per la difesa di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro
[4] M. Taruffo, Il giudice e lo storico: considerazioni metodologiche, in Rivista di diritto processuale, V. XXII, 1967, pp.438-465.
[5] Lo studioso Kühne fa un “esempio: ‘ho visto una donna’. Il testimone ha visto una persona di corporatura esile con capelli lunghi e una gonna. I dettagli fanno pensare a una donna, ma si sarebbe potuto trattare anche di uno scozzese, di un travestito o di qualcuno appena uscito da una festa di carnevale”; poi, arriva a dire, con Luhmann, che si forma una verità processuale che è una vera e propria costruzione, e che però anche se l’ambiguità è la sua principale caratteristica, salvo eccezioni il giudicato rimane immune da cambiamenti e quindi trasla e diventa verità processuale che può farsi verità storica. Con questa ultima può essere confusa. Dire continuamente che una verità è esclusivamente processuale, è come dire che non è davvero verità, e al contempo è come dire che non essendolo bisogna poi andare a cercare la vera verità nella storia (La strumentalizzazione della veritàe della sua ricerca nel processo penale, Criminalia 2008).
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