“Fine pena mai”, la Costituzione ci chiede una svolta

di Carla Chiappini, Vita Nuova – Avvenire, 16 maggio 2021

Camminando a fianco degli ergastolani ostativi. Loro e io; due percorsi lontani umanamente e geograficamente ma una vicinanza profonda, costruita giorno per giorno, settimana dopo settimana in quelle mattine del giovedì che mi prosciugano le forze ma mi rendono ricca nell’esperienza e nell’umanità

Loro e io; i nostri accenti si differenziano, le nostre storie sono tanto lontane quanto è quasi impossibile immaginare, eppure da cinque anni ci confrontiamo con onestà e rispetto; cerchiamo con cura le parole per capirci e per raccontare agli altri vite difficili e una realtà così dura e impenetrabile come quella delle sezioni di Alta Sicurezza e, prima ancora, del regime del 41 bis.

È una strada lunga e per nulla semplice; facile inciampare, ancor più facile farsi male senza volerlo oppure – ed è questa la situazione più difficile da accettare – restare incagliati, fermi senza sapere bene come procedere.

A volte la sofferenza e la rabbia sono tanto forti che ti sembra di poterle toccare e allora vorresti alleggerire in tutti i modi possibili e poi ti dici che sono uomini adulti, che hanno commesso crimini molto gravi e tu non puoi fare finta di ignorare. Il reato è incistato nelle loro storie ma hai la straordinaria fortuna di poter vedere anche tanto altro.

Non amo molto la frase, pur bella e avvincente, secondo cui “l’uomo non è il suo reato” perché un reato è stato commesso ed è proprio quella persona lì che ne è responsabile. A meno di clamorosi – e davvero troppo frequenti – errori giudiziari.

Ma poi, oltre il reato, c’è tutto il resto: la sofferenza sopportata con grande dignità, il coraggio del confronto con parole oneste e occhi nuovamente puliti, la cura degli affetti, lo sforzo di non deludere chi crede nella tua possibilità di essere una persona nuova, trasformata nel profondo. La pazienza nelle relazioni non sempre facili con i compagni, l’impegno serio e continuo nello studio, nella redazione e in tutte quelle attività a cui vengono regolarmente (e ingiustamente) sacrificate le ore d’aria.

Questo lento cammino, ricco in esperienza e umanità mi fa sentire il “fine pena mai” come un vulnus pesantissimo del nostro sistema penale e di tutti noi. Mi chiedo spesso come sia possibile non chiedersi cosa stiamo facendo di queste vite e se non sia una colpa grave e gravissima tenerle chiuse a oltranza dopo che in tutti i modi possibili hanno accolto le occasioni di cambiamento che la società esterna impegnata nelle carceri ha offerto loro.

Quasi che questo accanimento ci potesse davvero rendere più sereni e più sicuri.

Loro e io, pur nella distanza delle nostre storie e delle nostre vite, siamo profondamente vicini nel chiedere una svolta di umanità e di razionalità non solo ai politici che dovranno riscrivere la legge ma ai media troppo spesso incapaci di dare voce alla complessità e infine ai cittadini ingenuamente convinti che la durezza a tutti i costi sia garanzia di benessere sociale. Non si chiede di dimenticare, tutt’altro. Si chiede alla Magistratura, agli organi di polizia e agli Uffici di Esecuzione Penale esterna di svolgere con cura tutte le indagini necessarie, al carcere di stendere relazioni accurate, al volontariato e alla società esterna di rapportarsi in modo responsabile con le persone recluse per poter infine contribuire alla costruzione di percorsi seri di reinserimento. Così come prevede la nostra Costituzione.

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