Cannabis, un tabù che genera dolore

di Luigi Manconi. La Stampa, 3 maggio 2021

Il Tribunale di Arezzo ha assolto il cinquantenne Walter De Benedetto dall’accusa di spaccio di sostanze stupefacenti “per non aver commesso il fatto”. Da 36 anni De Benedetto soffre di artrite reumatoide, una patologia autoimmune cronica che colpisce le articolazioni, causando invalidità e dolori lancinanti. Per lenire le sofferenze, al paziente venivano prescritti, dal proprio medico, farmaci a base di cannabis. Ma la difficoltà di approvvigionarsi degli stessi e il loro costo assai elevato lo hanno indotto a ricorrere alla coltivazione domestica.

Il 23 settembre del 2019, una perquisizione dei Carabinieri nella sua abitazione di Ripa di Olmo ad Arezzo, e in una struttura vicina, porta al sequestro di piante e semi. A distanza di due anni, la sentenza dell’altro ieri assume una grande importanza perché libera una persona gravemente malata dall’afflizione del circuito giudiziario, e dal relativo stigma. E perché, allo stesso tempo, amplia e rafforza il diritto fondamentale alla salute, sancito dall’art. 32 della Costituzione, attribuendo al soggetto – il paziente – il potere di scegliere ciò che è bene o male per il suo corpo: a quali cure, di conseguenza, ricorrere e quali rifiutare.

Non siamo, dunque, nel campo delle opzioni culturali: non viene riconosciuto, con quella sentenza, un particolare stile di vita, e nemmeno una concezione della libertà come piena autodeterminazione su di sé e sul proprio corpo. Il senso e il cuore di quella sentenza sono costituiti, piuttosto, dall’affermazione del diritto fondamentale alla salute e della libertà di accedere alle cure, a tutte le cure, che possano meglio tutelarla. In questo caso, la terapia oggetto della controversia è quella che si affida a farmaci cannabinoidi.

Negli ultimi decenni, numerose ricerche hanno validato i benefici che la cannabis terapeutica può arrecare a chi soffre di sclerosi multipla, dolore oncologico e cronico, cachessia (in anoressia, HIV, chemioterapia), glaucoma, sindrome di Tourette. E si attendono i risultati di ricerche relative a patologie quali epilessia, malattie vascolari, metaboliche e gastro-infiammatorie. Il fatto che De Benedetto, per poter usufruire di quei benefici, sia stato costretto a coltivare la pianta nella propria abitazione e, per questo, abbia dovuto subire un processo, rappresenta, palesemente, qualcosa di grottesco. In Italia il suo comportamento è, sulla carta, perfettamente legale.

E da quattordici anni. È stato nel 2007, infatti, che il THC, il principio attivo della cannabis, venne inserito nella lista delle sostanze consentite ai fini della produzione di medicinali. E, otto anni dopo, con il Decreto ministeriale del 9 novembre 2015, venne autorizzata la coltivazione destinata al medesimo scopo, previa autorizzazione del Ministero della Salute. Dunque, si può dire, che De Benedetto è stato processato perché privo di quella autorizzazione. D’altra parte, oggi, qualsiasi medico può prescrivere la cannabis per uso terapeutico; e il paziente può ricorrervi attraverso il Sistema sanitario nazionale o a pagamento.

Nell’un caso come nell’altro, i tempi di attesa possono essere lunghissimi e la disponibilità, rispetto a una domanda crescente, assai limitata. E soprattutto, provvedere personalmente, e nello spirito della Costituzione e della norma, può comportare rischi seri, quali quelli nei quali è incorso De Benedetto.

Due tra le persone più competenti in materia, come Antonella Soldo e Marco Perduca, hanno indicato puntualmente, su Il Manifesto di domenica scorsa, quali debbano essere i provvedimenti ministeriali capaci di ottenere – in questo caso per quanto riguarda la cannabis – che una legge abbia effettivamente valore di legge, che una norma presente nell’ordinamento sia applicata, che un diritto riconosciuto sia esigibile. Ecco le misure necessarie: “autorizzare altri enti privati e pubblici a produrre cannabis terapeutica” oltre lo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze, operante ma insufficiente; “informare e formare i medici, anche di famiglia, che già oggi possono prescrivere” farmaci cannabinoidi; “liberalizzare l’importazione” di tali farmaci.

Se tutto ciò è ancora lontano dall’essere realizzato è perché un tenacissimo tabù pesa sulla cannabis. Uno stereotipo culturale e l’interdizione morale nei confronti di questa pianta fanno sì che non solo il suo uso ricreativo rimanga penalizzato, ma anche che la sua finalità medica sia sottoposta a divieti e proibizioni. Sembrerebbe una questione secondaria, pressoché insignificante, niente più che un residuo ideologico. Ma, a pagare una simile arretratezza culturale, sono persone – tante – come De Benedetto. Per decenni il loro dolore è stato messo a tacere dall’irriducibile peso di un insensato e crudele preconcetto.

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